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mercoledì 24 febbraio 2016

La sindrome del burnout

LA SINDROME DEL BURNOUT

Tra le forme di stress che possono derivare dal lavoro, una peculiare tipologia è quella che può essere riscontrata nella cosiddetta “sindrome del burnout” che rappresenta una vera e propria forma di esaurimento o logorio derivante dalla natura di alcune mansioni professionali.
Più precisamente si tratta di una esperienza soggettiva di cattivo rapporto con il lavoro, che viene vissuta generalmente in una fase successiva ad uno stato di tradizionale stress lavorativo e con una forma grave che ha delle sue caratteristiche specifiche e delle conseguenze negative in termini di salute, di produttività e di soddisfazione lavorativa.
La traduzione italiana della parola “burnout”, che comunemente avviene con il termine “bruciato” (o anche “scoppiato” o “andato in cortocircuito”), permette di descrivere parte delle sensazioni vissute da chi sperimenta lo stato di questa sintomatologia.
È utile anche sapere che questo termine anglosassone viene adottato comunemente per designare quelle persone che fanno un consumo abituale di droghe e da questo ambito è stato trasportato nel contesto del disagio manifestato da chi è in uno stato di burnout e mostra di essere deteriorato e svuotato dal “lavoro con le persone” sperimentando uno stato simile, per certi aspetti, allo stato di vuoto emotivo che viene descritto da alcuni tossicodipendenti o ex tossicomani.
Nonostante ciò va precisato che lo stato di burnout non è necessariamente collegato ad una “dipendenza dal lavoro” né è un esito certo di tutte le forme di “stress da lavoro”.

Uno sguardo quotidiano sul disagio
La “sindrome del burnout” è una tipologia specifica di disagio psicofisico connesso al lavoro che interessa, in varia misura, diversi operatori e professionisti che sono impegnati quotidianamente e ripetutamente in attività che implicano le relazioni interpersonali.
Tale problematica è stata descritta inizialmente da H. Freudenberger e da C. Maslach che portarono avanti le prime osservazioni su tale fenomeno dopo il 1970 all’interno di un reparto di igiene mentale in cui avevano notato su alcuni operatori dei sintomi caratteristici di questo problema.
Come sottolineano i risultati di alcune osservazioni sull’incidenza del fenomeno su mestieri differenti, il burnout colpisce in misura prevalente coloro che svolgono le cosiddette professioni d’aiuto o “helping professions” ma anche coloro che pur, avendo obiettivi lavorativi diversi dall’assistenza, entrano continuamente in contatto con persone che vivono stati di disagio o sofferenza.
Di conseguenza questo problema è stato riscontrato in modo predominante in coloro che operano in ambiti sociali e sanitari come medici, psicologi, assistenti sociali, counselors, esperti di orientamento al lavoro, fisioterapeuti, operatori dell’assistenza sociale e sanitaria, infermieri, guide spirituali, missionari e operatori del volontariato.
A partire dai primi anni in cui il fenomeno è stato studiato, esso è stato riscontrato anche in tutte quei mestieri legati alla gestione quotidiana dei problemi delle persone in difficoltà, a partire dai poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco, fino ai consulenti fiscali, avvocati, nonché in quelle tipologie di professioni educative (es. insegnanti) che generano un contatto, spesso con un coinvolgimento emotivo profondo, con i disagi degli utenti con cui lavorano e di cui guidano la crescita personale.

Secondo i risultati delle indagini di alcuni studiosi la chiave della genesi del burnout è da rintracciarsi in questo contatto frequente con le emozioni dolorose degli altri, una condizione che stressa emotivamente a causa della stessa natura umana e della capacità di sperimentare l’empatia che non sempre viene gestita in modo da saper mantenere un giusto distacco emozionale pur comprendendo i problemi dell’altro.
Da questa vicinanza emozionale eccessiva che si viene a creare per diverse ragioni che possono attenere ad elementi di comunanza con la propria storia personale, ma anche al carico eccessivo di lavoro o ad alcune abitudini psicologiche di gestione emotiva, si può superare la soglia di tolleranza del burnout e finire, in modo più o meno consapevole, per “vivere” il peso delle problematiche delle persone creando una confusione emotiva interiore tra se stessi e l’altro che può essere vissuta inizialmente anche semplicemente come una stanchezza e sensazione di aver lottato con un problema.

Le tre facce del burnout
Il disagio da burnout comprende tre vissuti che rappresentano le dimensioni fondamentali del problema da tenere in considerazione nelle valutazioni del problema.

La prima caratteristica è quella dell’esaurimento emotivo che è vissuto come un inaridimento interiore e come la sensazione di non avere più qualcosa da dare ai propri utenti e che viene esperito spesso come impotenza, tensione, impazienza, nervosismo o anche depressione e demotivazione rispetto a tutte le attività quotidiane precedentemente soddisfacenti.
Una delle affermazioni interiori o esteriori tipiche di chi prova questo stato è “questo lavoro mi scarica interiormente”.

La seconda dimensione tipica del problema è chiamata depersonalizzazione e corrisponde con una tendenza a reagire in modo freddo o persino cinico-aggressivo nei confronti delle persone che sono destinatarie della propria attività lavorativa, una risposta che spesso aumenta paradossalmente di fronte al tentativo di far sentire il proprio malessere da parte dell’utente.
Questo vissuto viene generalizzato attraverso uno stato mentale di distacco estremo rispetto al disagio altrui che si manifesta con uno stato interiore di disinteresse verso gli altri o talvolta persino di colpevolizzazione.

La terza particolarità del burnout è la presenza di una ridotta realizzazione lavorativa che determina una sfiducia nelle proprie capacità e competenze ma anche una diminuzione delle ambizioni di successo che spesso trasforma il lavoro in una attività condotta esclusivamente per mantenere la propria remunerazione. A causa di questa nuova prospettiva rispetto a se stessi dal punto di vista professionale è frequente anche la tendenza a giudicare in modo negativo il proprio lavoro passato con effetti retroattivi, annullando così mentalmente il valore delle soddisfazioni precedenti e generando in tal modo un ulteriore senso di insoddisfazione, rabbia ed esaurimento emozionale.

È molto importante sottolineare che lo stato di burnout è una condizione che è presente naturalmente nelle tipologie professionali “a rischio” precedentemente nominate e che, per tale ragione, ciò che è importante è che esso sia considerato come uno stato la cui intensità è da tenere sotto controllo per il benessere del lavoratore e degli utenti, nonché per l’immagine e per il rendimento delle strutture erogatrici (es. aziende, amministrazioni, ecc.), dal momento che su questi ultimi incidono la soddisfazione del lavoratore e dei beneficiari.

Inoltre va considerato che molti casi gravi di burnout possono determinare una sensazione di inutilità personale che ha già dimostrato di poter condurre a errori professionali, a comportamenti rischiosi per se e per gli altri, a conflitti aperti e anche a condotte di autolesionismo fatali.

Il lento cammino verso il burnout cronico
La storia di persone che raggiungono l’apice della sindrome mostra che esistono delle strade tipiche che vengono percorse fino ad arrivare al problema cronico.

Generalmente la prima tappa che viene rintracciata è la cosiddetta fase di preparazione che riguarda il periodo della scelta del proprio lavoro e dell’investimento affettivo dello stesso. Quando una persona sceglie un lavoro iniziando con una eccessiva esaltazione e un entusiasmo idealistico, con la convinzione di poter cambiare gli altri o se stessi in modo radicale si pone in una condizione potenziale di vulnerabilità maggiore al burnout.
Per tale ragione la formazione degli operatori dell’aiuto dovrebbe comportare sempre dei momenti di potenziamento delle capacità di gestione delle emozioni e degli obiettivi professionali e, in particolare, la formazione iniziale dovrebbe aiutare a sviluppare una concezione del cambiamento come un processo che si muove per piccoli passi, in modo che si impari ad apprezzare ogni sfumatura di miglioramento.

Nel cammino verso la fase acuta del burnout si passa velocemente dalla prima fase alla fase della svalutazione che è anche definita “stagnazione” e che deriva dalle richieste del quotidiano carico di lavoro, nonché dalle naturali delusioni rispetto all’immagine lavorativa idealizzata in precedenza.
Quando questa fase è naturalmente legata al carico di stress derivante dal lavoro in alcune strutture che gestiscono attività emotivamente pressanti, il burnout andrebbe trattato come una tossina che riempie l’organismo e dal quale ci si può liberare con un allontanamento dalla fonte dell’intossicazione. In alcuni paesi, a tal fine, è disposta la libertà di alcuni direttori e capigruppo di poter “mettere a riposo” il personale che è stato costretto a periodi o esperienze eccessive di stress emozionale o che mostrano segni di stress e di burnout tale da richiedere la sospensione temporanea dell’attività in via precauzionale.

Questa tappa viene seguita con il tempo da una fase di frustrazione che nasce dalla percezione, reale o immaginata, di non essere capace, utile o di essere svalutato rispetto alle proprie potenzialità, che si traduce talvolta nella sensazione di essere nel posto o nel ruolo sbagliato.

Nella fase cronica del burnout si passa allo stato di apatia che sostituisce ogni forma precedente di empatia e di motivazione, con la sensazione stabile di non poter essere d’aiuto a nessuno, talvolta accompagnata anche dal desiderio di cambiare attività o dalla fretta di raggiungere un’età pensionabile.

I fattori che avvicinano allo stato cronico

I numerosi studi compiuti sulle persone che hanno raggiunto stati di burnout grave hanno reso possibile l’analisi dei cosiddetti “fattori di rischio” che favoriscono l’insorgenza del problema.
Essi sono in parte legati a caratteristiche individuali e in parte connessi a fattori ambientali.

Dal punto di vista individuale il burnout tende a svilupparsi prevalentemente in:
- fasce demografiche a rischio che sono quelle di persone con età compresa tra 30 e 40 anni e non coniugate o non impegnate stabilmente in una relazione affettiva, che tendono a investire sul proprio lavoro in modo predominante o esclusivo;
- persone con alcune caratteristiche psicologiche che rendono più vulnerabili quali quelle che sono carenti di assertività e che tendono quindi ad essere passive o aggressive di fronte alle difficoltà, nonché quelle che tendono ad accettare difficilmente i cambiamenti, che li vivono in come incontrollabili o ancora quelli con impegni sociali ridotti al di là del lavoro;
- persone che “investono” sul lavoro eccessivamente (anche quelle con dipendenza dal lavoro) che lavorano intensamente o che passano ogni momento della propria settimana a lavorare o a pensare al lavoro e che hanno grandi aspettative di successo sia rispetto ai risultati legati al cambiamento degli utenti che rispetto a eventuali crescite professionali.

Dal punto di vista ambientale esistono dei fattori che predispongono maggiormente al problema, tra i quali rientrano:
- il settore lavorativo di appartenenza che comprende i mestieri che sono stati precedentemente indicati come “a rischio”;
- alcune caratteristiche del lavoro svolto tra cui rientrano il carico eccessivo di lavoro con le persone, la presenza di scadenze pressanti, le ambiguità di ruolo;
- le caratteristiche dell’organizzazione aziendale in cui si opera poiché si osserva che questo problema è più frequente e più intenso in quelle organizzazioni in cui si lavora con incertezza economiche, con contratti instabili e in cui sono poco valorizzate le proprie capacità e si lascia poco spazio all’autonomia nella gestione delle attività quotidiane. In tal senso si tratta di luoghi di lavoro in cui esiste anche un alto rischio di mobbing e di stress lavorativo più in generale.
Come per altre problematiche lavorative è particolarmente importante la conoscenza del problema da parte dei lavoratori e dei datori di lavoro, nonché la possibilità di monitorare i livelli di questa tipologia di stress, sia con opportuni strumenti somministrati periodicamente dai professionisti esperti in questo tipo di valutazioni, che attraverso la costante osservazione delle ricadute del problema sul benessere emozionale, sulle capacità di mantenere l’attenzione nelle proprie mansioni, sulla serenità nel rapporto con l’utenza e sulla qualità del servizio offerto.

Autrice: Dott.ssa Monica Monaco
Fonte: www.benessere.com

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