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mercoledì 27 aprile 2016

Le cicatrici dell'infanzia che durano per sempre

LE CICATRICI DELL'INFANZIA CHE 
DURANO PER SEMPRE


L’infanzia è quel momento della vita in cui si verifica un bel paradosso: siamo capaci di mettere basi di cemento in brevissimo tempo senza neppure rendercene conto, ma al tempo stesso lasciare cicatrici profondissime. A 4 anni comincia già a definirsi il nostro modo di essere. Da quel momento in poi, quel che resta è sviluppare o frenare l’inerzia che abbiamo assunto durante i nostri primi anni di vita.
L’infanzia lascia cicatrici che durano per sempre. Sono segni indelebili, che si riflettono principalmente sull’atteggiamento che assumiamo verso noi stessi e verso gli altri. Tuttavia, alcune di queste cicatrici sono più persistenti e profonde, a causa del grande impatto che causano nella mente di un bambino.


“Il modo migliore affinché i bambini siano buoni è renderli felici.”
-Oscar Wilde-


L’impossibilità di fidarsi fin dall’infanzia

Quando un bambino viene manipolato o tradito insistentemente dai suoi genitori o tutori, difficilmente si fiderà delle altre persone né di se stesso. Dovrà lottare con tutte le sue forze contro quella tendenza a non avere fiducia per riuscire a stabilire dei vincoli intimi con gli altri.

Si imbroglia un bambino quando gli si promettono cose che non può avere o che non ci si impegna a compiere. Per questo motivo, è importante regalare ad un bambino il giocattolo che gli avevate promesso, portarlo a giocare al parco il giorno stabilito insieme e dedicargli il tempo che avevate promesso di dedicargli.
Queste azioni agli occhi degli adulti possono passare inosservate o prive di importanza. Tuttavia, per i bambini rappresentano un insegnamento riguardo a cosa aspettarsi, in generale, dalle persone care.
Se un bambino osserva che i suoi genitori mentono, imparerà che le parole hanno poco valore. Avrà quindi difficoltà a credere a quello che dicono gli altri e a sforzarsi per rispettare le sue stesse parole. Questa cicatrice implica che, durante lo sviluppo, il bambino avrà grandi difficoltà a stringere rapporti con gli altri e a costruire una vera intimità – rifugio- nel quale si senta al sicuro con qualcuno.

La paura dell’abbandono

Un bambino che si è sentito solo, ignorato o abbandonato, inizierà a credere che la solitudine è totalmente negativa e opterà per una delle seguenti scelte: diventerà eccessivamente dipendente dagli altri, cercando di continuo qualcuno che lo protegga e lo accompagni, oppure rinuncerà alla compagnia degli altri, come misura di precauzione per non soffrire un potenziale abbandono.
Coloro che seguono la scia della dipendenza, saranno in grado di tollerare qualsiasi tipo di relazione pur di non sentirsi soli. Credono di essere completamente incapaci di affrontare la solitudine e, per questo, sono disposti a pagare qualsiasi prezzo per la compagnia.
Chi scappa la paura dell’abbandono per la via dell’indipendenza ad oltranza è incapace di godere dell’affetto sincero di una persona cara. Per queste persone, l’amore è sinonimo di paura. Quanto più affetto proveranno per un’altra persona, più crescerà la loro ansia e il loro desiderio di scappare. Sono le classiche persone disposte a porre fine ad una relazione invidiabile per l’angoscia che provocherebbe loro un’eventuale perdita della figura amata.La paura del rifiuto
Un bambino che è stato continuamente criticato e sminuito dai suoi genitori diventa nemico di se stesso. In questo modo, sviluppa un dialogo interiore nel quale le costanti sono l’auto-rimprovero e l’auto-recriminazione.
Questo bambino, in età adulta, probabilmente non si sentirà mai in accordo con ciò che fa o pensa. Troverà sempre il modo di sabotare i suoi piani e gli sarà difficile capire che possiede anche delle virtù e che può avere successo. Sentirà di non meritare l’affetto né la comprensione di nessuno, e che le sue espressioni d’amore nei confronti degli altri mancano di validità.
In generale, questi bambini si trasformeranno in adulti isolati e sfuggenti, che proveranno panico in situazioni di contatto sociale. Allo stesso tempo, saranno estremamente dipendenti dalle opinioni altrui. Di fronte ad ogni minima critica, si sminuiscono del tutto, poiché non sanno distinguere un’osservazione oggettiva da un attacco personale.
Se oltre ad essere stato rifiutato, il bambino è anche stato umiliato, le conseguenze saranno ancora più gravi. L’umiliazione lascia sentimenti di ira irrisolti, che si trasformano in una sensazione continua di impotenza. Questa condizione molte volte trasforma le persone, rendendole tiranniche ed insensibili, e portandole ad umiliare gli altri.
Le cicatrici lasciate da queste esperienze infantili sono molto difficili da rimarginare. Tuttavia, questo non significa che non sia possibile né che non possano trasformarsi positivamente. Il primo passo sta nel riconoscerle e nell’essere consapevoli che bisogna lavorarci su, per impedire che determinino il resto della nostra vita.

Fonte: www.lamenteemeravigliosa.it
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martedì 19 aprile 2016

La buona educazione in famiglia: il perdono

LA BUONA EDUCAZIONE IN FAMIGLIA: IL PERDONO
Oggi è diffusa una evidente difficoltà a chiedere scusa. Il concetto di perdono è largamente ignorato. Uno dei motivi per cui molti adulti hanno difficoltà a esprimersi con il linguaggio del perdono sta nel fatto che non hanno mai imparato quel vocabolario durante l'infanzia. Ecco i passi da fare per impararlo.

L'arte del perdono deve essere imparata durante l'infanzia. Un bambino può imparare a chiedere scusa quando è ancora piccolo e il suo livello di comprensione dell'importanza del perdono richiesto e donato deve crescere insieme a lui. In questo modo pone le basi per la crescita morale e relazionale degli anni successivi.
I genitori devono accompagnare i bambini attraverso una serie di tappe semplici ma decisive.

Il primo passo da compiere per insegnare ai nostri figli a chiedere scusa consiste nel condurli ad assumersi la responsabilità del loro comportamento. Questo percorso può cominciare molto presto e in contesti moralmente neutri. Assumersi la responsabilità delle proprie parole e delle proprie azioni è il primo passo per imparare a chiedere scusa. Generalmente, i bambini si assumono di buon grado la responsabilità delle loro azioni positive. «Ho mangiato tre forchettate di spinaci. Posso avere il budino, adesso?». «Sono il più veloce di tutti a correre». «Ho disegnato una bella automobile durante l'ora di arte». Sono tutte affermazioni di assunzione di responsabilità per azioni positive.
Invece, i bambini non sono così pronti ad assumersi la responsabilità per azioni meno nobili. Qual è stata l'ultima volta in cui avete sentito un bambino di tre anni ammettere: «Ho mangiato il dolce che la mamma aveva detto di lasciar stare» oppure: «Ho spinto Nicolino»? Un'assunzione di responsabilità a questo livello richiede un notevole sforzo di attenzione da parte dei genitori, che devono con pazienza correggere tutte le frasi del tipo «Si è rotto!» in frasi che cominciano per “io”: «Io l'ho rotto!»

Il secondo passo per insegnare ai bambini a chiedere scusa consiste nell'aiutarli a comprendere che le loro azioni influiscono sempre sugli altri. «Se aiuti la mamma a preparare la tavola, la mamma è felice. Se giochi con la palla in casa e rompi la lampada, la mamma è triste. Se dici alla sorellina: “Ti voglio bene”, lei si sente amata, se invece le dici: “Ti odio”, si sente ferita. Le tue parole e le tue azioni aiutano o feriscono altre persone. Quando aiuti qualcuno, ti senti bene, quando invece ferisci una persona, stai male».
Gli esseri umani sono fragili e vulnerabili. Tutti portano un'etichetta che dice: «Trattare con cura, maneggiare con cautela, merce delicata».

Il terzo passo per insegnare ai bambini a chiedere scusa consiste nell'aiutarli a comprendere che nella vita ci sono sempre regole. La più importante è la regola d'oro insegnata da Gesù: tratta gli altri come vorresti essere trattato tu.
Vi sono però tante altre regole, molte delle quali sono finalizzate ad aiutarci a vivere bene. «Non si gioca a palla in casa» è una regola che molti genitori hanno stabilito per ovvie ragioni. «Non dobbiamo prendere nulla che non ci appartenga. Non dobbiamo dire cose non vere su altre persone. Non dobbiamo attraversare la strada senza esserci accertati che non provengano veicoli da una parte e dall'altra. Dobbiamo dire “grazie” quando una persona ci offre qualcosa o dice qualcosa di bello sul nostro conto. Dobbiamo andare a scuola tutti i giorni feriali, se non siamo ammalati o non c'è un problema grave».

Il quarto passo per aiutare i bambini a imparare a chiedere scusa consiste nel far loro comprendere che è necessario chiedere scusa, per mantenere buoni rapporti interpersonali. Quando ferisco una persona con le mie parole o con il mio comportamento, costruisco una barriera tra quella persona e me. Se non imparo a chiedere scusa, la barriera rimane e il mio rapporto con quella persona è incrinato. Le mie parole o le mie azioni offensive spingono le persone lontano da me e, in assenza di una richiesta di scuse, quelle persone continueranno ad allontanarsi. Il bambino, l'adolescente o l'adulto che non impara questa realtà alla fine si ritroverà isolato e solo.

Tutto questo può essere riassunto in una specie di scaletta di cinque gradini, che per i più piccoli può essere quasi un gioco: 1. Esprimere rammarico: «Mi dispiace» 2. Assumersi le proprie responsabilità: «Ho sbagliato» 3. Cercare di rimediare: «Che cosa posso fare per riparare?» 4. Impegnarsi sinceramente per il futuro: «Cercherò di non farlo più» 5. Chiedere scusa: «Puoi perdonarmi?».
L'obiettivo è che i bambini acquisiscano una specie di “mentalità del perdono”. Il livello di capacità in questo senso dovrebbe crescere con l'età ed è molto simile al processo di apprendimento di una lingua.
In ogni caso, il metodo più efficace per insegnare ai bambini più grandi a parlare i linguaggi del perdono è costituito dall'esempio. Quando i genitori chiedono scusa ai loro figli per le parole dure o il trattamento ingiusto di cui hanno dato prova, offrono l'insegnamento più efficace. I bambini piccoli fanno quello che dicono i genitori; i figli più grandi fanno ciò che fanno i genitori. Se i genitori imparano a chiedere scusa uno all'altra, ai loro figli e ad altre persone, allora i figli impareranno anche a parlare i linguaggi del perdono.
Siamo più simili a bestie quando uccidiamo. Siamo più simili a uomini quando giudichiamo. Siamo più simili a Dio quando perdoniamo.

CHIODI
C'era una volta un ragazzo dal carattere molto difficile. Si accendeva facilmente, era rissoso e attaccabrighe.
Un giorno, suo padre gli consegnò un sacchetto di chiodi, invitandolo a piantare un chiodo nella palizzata che recintava il loro cortile tutte le volte che si arrabbiava con qualcuno.
Il primo giorno, il ragazzo piantò trentotto chiodi.
Con il passare del tempo, comprese che era più facile controllare la sua ira che piantare chiodi e, parecchie settimane dopo, una sera, disse a suo padre che quel giorno non si era arrabbiato con nessuno.
Il padre gli disse: «È molto bello. Adesso togli dalla palizzata un chiodo per ogni giorno in cui non ti arrabbi con nessuno».
Dopo un po' di tempo, il ragazzo poté dire a suo padre che aveva tolto tutti i chiodi.
Il padre allora lo prese per mano, lo condusse alla palizzata e gli disse: «Figlio mio, questo è molto bello, però guarda: la palizzata è piena di buchi. Il legno non sarà mai più come prima. Quando dici qualcosa mentre sei in preda all'ira, provochi nelle persone a cui vuoi bene ferite simili a questi buchi. E per quante volte tu chieda scusa, le ferite rimangono».

Autori: Ferrero B. – Peiretti A.
Fonte: B.S. marzo 2016
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mercoledì 13 aprile 2016

Educare a pensare

EDUCARE A PENSARE


Educare i propri figli non è facile, e ancora più difficile è insegnare loro a pensare. Entrambi questi insegnamenti implicano sforzo e dedizione e, nella maggior parte dei casi, a noi non è stato insegnato fin da piccoli, il che significa che ora non sappiamo come trasmettere questi valori ai nostri figli.
Per insegnare loro a pensare, la prima cosa da prendere in considerazione è il fatto che i nostri figli sono in grado di farlo poiché, nonostante la loro tenera età, hanno l’abilità di sviluppare una logica propria, un proprio ragionamento e delle strategie, che sono tanto utili nella vita quanto l’imparare a prendere le proprie decisioni.

 

Ubbidire non è educativo

Diversamente da ciò che siamo abituati a sentire, ubbidire non serve ad educare o ad insegnare, ma è utile solo a stabilire un legame di sottomissione e ad assicurarsi che tutto sia sotto il proprio controllo quando i più piccoli ci ubbidiscono.

Ubbidire si può usare con un animale, poiché non pensa, e il suo addestramento si basa sull’ubbidire in cambio di un premio o di un riconoscimento.
Tuttavia, i bambini, come esseri umani, anche se sono piccoli, hanno la facoltà di pensare, di capire e di ragionare e, ovviamente, hanno il diritto di essere se stessi, con le proprie idee, convinzioni e ragionamenti, anche quando noi non siamo d’accordo con loro.

“L’educazione consiste nell’aiutare un bambino a rendere reali i propri talenti”
-Erich Fromm-

La difficoltà di ubbidire senza sottomettere

Se assumiamo il punto di vista dell’educatore adulto, è normale che sia molto più difficile educare i bambini senza richiedere loro di essere ubbidienti, ma facendolo attraverso il rispetto, insegnando loro a pensare e valorizzandoli.
Durante l’infanzia, abbiamo la capacità di assorbire tutto ciò che ci circonda, sviluppando così un’idea del mondo che viene adattata alla nostra età. Ciò significa che,se insegniamo ai bambini a ubbidire e a rimanere all’interno di certe restrizioni, è normale che, anche con un bambino disubbidiente, per l’adulto il compito da educatore sia abbastanza facile, poiché potrà gestire queste situazioni con autorità, imponendosi, mettendo paura e facendo uso di punizioni. Tuttavia, in questo modo, il messaggio che arriva al bambino è di non essere importante per il mondo, il che sarà poi fonte di insicurezze.
Ciò significa che, senza dubbio, l’educazione diventa complicata quando vogliamo insegnare ai più piccoli a pensare, a capire, a trarre le proprie conclusioni e a riflettere.

 

Dedizione, tempo e motivazione

Insegnare a pensare richiede dedizione, tempo, pazienza e sapere come fare, facendo uso delle strategie giuste. Per questo, è necessario un atteggiamento riflessivo, rispettoso e che nasca dall’amore, perché l’impegno porti a risultati soddisfacenti.
Senza dubbio, raggiungere quei risultati significa permettere al bambino di crescere in salute dal punto di vista emotivo, sentendosi amato, rispettato e ascoltato. Crescerà, quindi, forte e sicuro di sé, pronto ad affrontare, una volta adulto, le avversità della vita, sapendo come riflettere su questioni diverse e come prendere le decisioni migliori.

Come si insegna a pensare?

Per insegnare a pensare, è importante adottare una serie di strategie a livello educativoche, giorno dopo giorno, permetteranno al piccolo di crescere, definendo se stesso di fronte alla vita e di fronte a noi, imparando e capendo il mondo e ciò che è meglio per lui e per la strada che dovrà percorrere, potendo contare sempre sul nostro amore, sul nostro sostegno e sulla nostra vicinanza. Ecco quali sono queste strategie:
·        Prima di tutto, bisogna dimostrare e spiegare al bambino che è la persona più importante della nostra vita, donandogli l’affetto, l’amore e il riconoscimento che si merita in questo momento in cui sta superando se stesso, sta imparando e sta crescendo.
·        Bisogna dargli la possibilità di trovare la sua strada, ovvero non dargli tutto già fatto, risolto o finito. Con il sostegno e il nostro aiuto, dobbiamo permettergli di fare le cose da solo, anche se corre il rischio di sbagliare e anche se dovrà correggersi più tardi.
·        La comunicazione e il linguaggio sono fondamentali, e parliamo sia di quello verbale sia di quello corporeo e di quello emotivo. È molto importante parlagli in modo chiaro, semplice e affettuoso.
·        Di fronte ai suoi ragionamenti e alle sue piccole decisioni, bisogna ascoltare, spiegargli le conseguenze che avranno e, in alcuni casi, lasciare che le viva da solo, così che possa trarre le proprie riflessioni e i propri apprendimenti dalle sue esperienze.
·        Bisogna spronarlo, essere positivi quando raggiunge piccoli traguardi e scoperte, e motivarlo a imparare ciò che, come adulti, consideriamo importante; per esempio, abitudini d’igiene personale, studi, comportamenti, ecc…
È importante giungere a degli accordi, a delle conseguenze concordi, in modo che, a partire dalla comunicazione, dalla comprensione e dalla negoziazione, i bambini facciano parte delle decisioni, delle regole e dei valori che vogliamo insegnare loro e, in generale, della loro vita, riflettendo da soli su cosa li spinge ad andare avanti e cosa li rende felici.

“Non nascondete ai vostri figli le difficoltà della vita, piuttosto insegnate loro a superarle”.
-Louis Pasteur-

In questo modo, i nostri figli cresceranno sani a livello emotivo, sicuri di sé e capaci di prendere le proprie decisioni.

Fonte: www.lamenteemeravigliosa.it
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mercoledì 6 aprile 2016

Il silenzio dei padri di fronte ai figli stesi sul divano

"GLI SDRAIATI" di MICHELE SERRA
Il silenzio dei padri di fronte ai figli stesi sul divano

Freud dava ai genitori due notizie, una cattiva e una buona. Quella cattiva: il mestiere del genitore è un mestiere impossibile. Quella buona: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità. Come dire che l'insufficienza, la vulnerabilità, la fragilità, il senso dei propri limiti, non sono ingredienti nocivi all'esercizio della genitorialità. Tutt'altro. E' da queste due notizie che trae linfa Gli sdraiati, il nuovo, imperdibile, libro di Michele Serra che racconta la sua testimonianza singolare di padre. Se nella nostra cultura il tema della paternità è diventato negli ultimi anni un tema egemonico, è perché intercetta una angoscia diffusa non solo nelle famiglie, ma nelle pieghe più profonde del nostro tessuto sociale: cosa resta del padre nell'epoca della sua evaporazione autoritaria e disciplinare? Può esistere ancora una autorità simbolica degna di rispetto? Può la parola di un padre avere ancora un senso se non può più essere la parola che chiude tutti i discorsi, che può definire dall'alto il senso Assoluto del bene e del male, della vita e della morte?

Il padre di cui ci parla Serra attraverso il suo caso personale non nasconde affatto la paradossale "fragilità materna", la schizofrenica incarnazione dell'autorità che oscilla paurosamente tra la spinta a sgridare e quella a soccorrere, non cancella le contraddizioni del suo parlamento interno, abitato, come quello di tutti - come ricordava giustamente Gilles Deleuze ai rivoluzionari degli anni Settanta - da reazionari che invocano il ristabilimento repressivo dell'ordine. Questo nuovo padre non ha più a che fare con truppe di figli intimoriti dalla sua potenza titanica, né con figli ribelli che contestano la sua azione repressiva. Non si era mai vista prima una cosa del genere, commenta un amico di Serra preparandosi alla vendemmia in una bella mattina d'autunno mentre osserva i ragazzi che preferiscono trascorrere la mattina nei loro letti anziché unirsi ai "vecchi". "Non si era mai visto prima che i vecchi lavorano mentre i giovani dormono". Una mutazione antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri figli. Michele Serra la sintetizza come passaggio dalla posizione eretta a quella orizzontale: eccoli, gli sdraiati, avvolti nelle loro felpe e circondati dai loro oggetti tecnologici come fossero prolungamenti post-umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di oggi, quelli che preferiscono la televisione allo spettacolo della natura, che non amano le bandiere dell'Ideale, ma che vivono anarchicamente nel loro godimento autistico, eccoli in un mondo dove "tutto rimane acceso, niente spento, tutto aperto, niente chiuso, tutto iniziato, niente concluso". Eccoli i consumisti perfetti, "il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo nutre, l'illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa".

Non si era mai visto niente di simile a questa generazione. Sia detto senza alcun moralismo, precisa Serra. Non è né bene, né male; è una mutazione, "è l'evoluzione della specie", come commenta suo figlio.

Gli Sdraiati è un libro tenerissimo dove la consueta ironia e la forza satirica che tutti amiamo in Michele Serra si alterna a momenti struggenti, ad una nostalgia lirica di rara intensità e alla bellezza pura della scrittura. Come quando descrive l'orizzonte metafisico delle Langhe o la resistenza commovente al vento e alla pioggia delle portulache sulla terrazza della casa del mare dei propri avi, o, come quando racconta con stupore la scoperta dell'abitudine del figlio ipertecnologico di raggiungere il tetto della scuola per guardare le nuvole, o quando lo descrive stravaccato sul divano indugiando sul suo volto addormentato che "contiene il suo addio agli anni dell'innocenza", o come quando, ancora, osserva stupefatto, nelle pagine finali del libro, il figlio oltrepassarlo sul sentiero di montagna del Colle della Nasca che egli dubitava avrebbe mai potuto percorrere sino in fondo.

La giovinezza si palesa innanzitutto nell'odore. Nei versetti dedicati a Giacobbe la Bibbia descrive soavemente l'odore del figlio come quello neutro di un campo. Nell'età della giovinezza, come i genitori sanno bene, questo incanto si rompe. Era stato facile amarli da piccoli, quando l'odore del loro corpo era quello del campo. Adesso invece il corpo sgomita. Una delle etimologie del termine adolescenza significa infatti arrivare ad avere il proprio odore. È quello che accade anche agli sdraiati. Il corpo fa irruzione sulla scena della famiglia con la sua forza pulsionale di cui i calzini puzzolenti che il padre raccoglie con pazienza e disperazione per casa sono una traccia emblematica. Questo corpo spinge alla vita. Ma spinge a suo modo. Senza ricalcare quello che è avvenuto nella generazioni che li ha preceduti. Gli sdraiati sembra facciano collassare ogni possibilità di dialogo. La parola non circola. Sembra vivano in un mondo chiuso allo scambio.

In Pastorale americana di Philip Roth l'impossibilità del dialogo tra le generazioni viene resa spietatamente attraverso le scelte del terrorismo e del fondamentalismo religioso compiute dalla figlia balbuziente per manifestare in questo modo la sua opposizione ostinata al padre. Niente del genere per Gli sdraiati di Serra. Il figlio non sceglie la via dell'opposizione ideologica, della lotta senza quartiere, della rabbia e della rivolta. Egli sembra piuttosto appartenere ad un altro mondo. Così lo guarda suo padre. Senza giudizio, ma come si guarda qualcosa di irraggiungibile, qualcosa che non possiamo governare. Per questo Serra invita le vecchie generazioni a porre fine allo loro assurda guerra che viene descritta - in una atmosfera oniroide alla Blade Runner - come uno scontro epico tra la moltitudine stremata dei Vecchi e la forza resistente dei Giovani.

Il condottiero dei Vecchi Brenno Alzheimer, alias Michele Serra, sa che la sua guerra è sbagliata, sa che è sbagliato odiare la giovinezza, guardarla con lo sguardo torvo e risentito da chi ormai ne è fatalmente escluso, sa che è sbagliato rifiutare la legge irreversibile del tempo. Brenno Alzheimer, diversamente dai padri ipermoderni che esorcizzano il passare del tempo come una maledizione, sa che sono i Giovani a dover vincere la guerra perché è "la bellezza che deve vincere la guerra. La natura deve vincere la guerra, la vita deve vincere la guerra. Voi giovani dovete vincere la guerra". Il segreto più grande nel rapporto tra le generazioni è quello di saper amare la vita del figlio anche quando la nostra inizia la fase del suo declino. Non avere paura del proprio tramonto è la condizione per la trasmissione del desiderio da una generazione all'altra. E non dispererei che le portulache che sono
state oggetto di cura da tre generazioni nella terrazza della casa del mare - "la cura del mondo è una abitudine che si eredita", scrive Serra - possano trovare nello sdraiato, apparentemente indifferente allo spinozismo panteistico del padre, il loro giardiniere impossibile. 

Fonte: www.repubblica.it
Autore: Massimo Recalcati

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