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mercoledì 31 marzo 2021

I ragazzi si tagliano per noia o per esibizionismo

 I RAGAZZI SI 'TAGLIANO' PER NOIA O PER ESIBIZIONISMO

Condividiamo l’intervista di Zita Dazzi ad Alfio Maggiolini per La Repubblica sui recenti episodi di cronaca di risse tra ragazzi e di comportamenti autolesivi.

«Forme di autolesionismo ed esibizione di forza tipiche della nostra epoca, forse anche legate a questo momento complicato che i giovani stanno vivendo per la pandemia». Sono diverse le componenti che stanno dietro ai gravi episodi di questi giorni, dai due giovani che si sfregiano in volto, alle maxi risse di piazza a Gallarate, secondo Alfio Maggiolini, psicoterapeuta e fra i fondatori del centro Minotauro che si occupa di adolescenti.

Maggiolini, lei è anche consulente dei servizi per la Giustizia minorile del Tribunale di Milano, cosa sta succedendo ai ragazzi protagonisti di questi gravi episodi?

«Non conoscendo i dettagli di questa ragazza sfregiata, se è vero che le ferite sono alla bocca, posso solo dire che questo tipo di tagli e di comportamenti autolesivi riguardano di solito braccia, gambe. Le motivazioni di questi gesti di solito sono sofferenze individuali. I comportamenti a volte vengono quasi nascosti. Ci si taglia in parti del corpo non visibili: farlo sul volto deve avere un significato preciso».

Quale?

«Il taglio di solito si fa per alleviare tensioni emotive che attraverso il dolore fisico compensa e prevale sul dolore mentale, e crea un rilascio di endorfine del corpo che funge da autodifesa, dà una sorta di sollievo, Funziona come una autoregolamentazione in persone che hanno disturbi della personalità borderline ».

Qui erano in due e il procuratore dei minori Ciro Cascone mette in guardia dall’effetto emulazione che potrebbe scattare parlando di Joker, il nemico di Batman.

«A volte questi gesti fatti in una dimensione di coppia hanno uno scopo dimostrativo. Nella relazione sentimentale mostrano il dolore, fanno arrivare un segnale di disagio emotivo che l’altro non coglie, sono un modo per colpevolizzare l’interlocutore, come il suicidio. La ferita ha un valore di esibizione molto alto e assomiglia alla manipolazione del corpo».

I piercing e i tatuaggi?

«Sì, segni che in cui non c’è solo il voler comunicare la propria sofferenza, ma nei quali il gesto diventa segno di identità, che non è un capo di abbigliamento. Sul corpo viene scritto chi sono io. Questa è un’onda lunga molto antica. In passato tatoo e piercing erano segni di marginalità sociale, erano di nicchia, oggi sono diventati costume, sono inseriti nella cultura del tempo come fatto estetizzante».

Una coppia di adolescenti può arrivare a questo?

«Poteva essere una prova iniziatica reciproca, che vale come patto di sangue, identità condivisa».

Con questo lockdown i giovani stanno dando di matto sia in coppia, sia collettivamente. I fidanzati si tagliano la bocca, il branco si dà appuntamento in piazza per picchiarsi.

«Io nelle risse ci vedo anche molto desiderio di spettacolarizzare attraverso i media e i social il proprio immaginario, dove lo scontro fisico fra maschi entra come componente evolutiva».

Sono baby gang?

«Non mi pare. Solo i gruppi sudamericani qualche volta avevano la dinamica della lotta fra bande strutturate, con leader e organizzazione gerarchica, riti di iniziazione. Qui invece mi pare siamo in presenza di gruppi di quartiere e aggregazioni spontanee».

I minorenni lo fanno perché sono stufi di stare a casa davanti ai pc a fare lezioni a distanza mentre fuori tutto tace?

«Sicuro c’entrano la noia, la frustrazione, l’assenza di futuro, la paura che non ci sia possibilità di riscatto sociale per chi vive in periferia. Ma in aggiunta c’è la voglia di farsi notare e di conquistare successo e approvazione con l’amplificazione creata grazie alla ripresa e messa in rete delle immagini. Lo scopo, più che sfogarsi e farsi male, diventa proprio quello di mostrarsi ed esibirsi sui social mentre si fanno queste attività.

L’effetto di spettacolarizzazione e di enfatizzazione è importante perché il finire online e farsi vedere da tanti, è un vanto. Questa è la dimensione culturale in cui siamo immersi tutti».

Fonte: www.minotauro.it

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mercoledì 17 marzo 2021

 LASCIAMO UN BUON RICORDO NEI NOSTRI BAMBINI

Alcuni semplici consigli per genitori ed educatori

«La memoria ci è stata data da Dio per permetterci di avere le rose a Dicembre» diceva lo scrittore scozzese James Barrie. In questa sede noi possiamo dire che la memoria ci è stata data da Dio per permetterci di ricordarci dell'infanzia nelle tempeste della vita.

In un libro intitolato Il valore dei ricordi dell'infanzia, l'autore californiano Norman B. Lobsenz riporta le risposte alla domanda: «Qual è il più bel ricordo dei tuoi primi anni?» Il figlio stesso dell'autore del libro, intervistato, ha risposto: «Mi ricordo quando una sera eravamo soli in macchina e tu ti sei fermato per aiutarmi a prendere le lucciole!»

Il bambino aveva cinque anni. Il padre gli domandò: «Perché ti ricordi di questo?»

«Perché non pensavo che ti saresti fermato a prendermi le lucciole, invece ti sei fermato!»

Per un altro il più bel ricordo è “Il giorno della scampagnata scolastica quando mio padre, di solito freddo, dignitoso, impeccabile, si presentò in maniche di camicia, si sedette sull'erba, mangiò con noi e partecipò ai nostri giochi lanciando la palla più lontano di tutti. Più tardi scoprii che aveva rimandato un importante viaggio d'affari per stare con me quel giorno!»

Lasciare un bel ricordo, anche questo è educare. Un buon ricordo può salvare tutta un'esistenza.

Lo ha capito quel genio che fu il grandissimo scrittore russo Feodor Dostoevskij il quale era così convinto da avvertire con molta sicurezza: «Sappiate che non c'è nulla di più alto e forte e sano e utile per la vostra vita futura di qualche buon ricordo, specialmente se recato con voi fin dai primi anni, dalla casa dei genitori. Uno di questi buoni e santi ricordi, custodito fin dall'infanzia, è forse la migliore delle educazioni. E quand'anche un solo buon ricordo restasse con noi, nel nostro cuore, potrebbe un giorno fare la nostra salvezza».

Nove consigli per mangiare da genitori intelligenti

1. Puntiamo sulla cena. È più facile che la famiglia si trovi riunita. Mettiamoci d'accordo perché nessuno manchi e tutti siano puntuali.

2. Quando si è a tavola non si sente la televisione, ma si parla, si chiacchiera, si racconta la propria giornata. Anche il bambino della Scuola dell'Infanzia può prendere la parola.

3. Mangiare e restare insieme come famiglia, deve essere uno dei momenti più belli della giornata e della vita. Per questo a tavola si mettono tra parentesi fastidi e preoccupazioni.

4. Non siamo troppo esigenti sul galateo. Interveniamo solo quando è proprio necessario. Meglio la spontaneità e l'allegria che la troppa pulizia.

5. Perché accorgersi solo quando la minestra sa di bruciato e non fare, invece, i complimenti alla cuoca quando è buona?

6. Non è giusto che solo la mamma prepari, serva, riordini, pulisca. La casa è una comunità non un ristorante. Ognuno è responsabile della felicità della famiglia.

7. Quando si mangia non si fanno 'prediche' non si dice: «Qui comando io!» È lecito urlare, di tanto in tanto, ma ad una condizione: che si possa urlare a turno!

8. Non usiamo il cibo come premio o come punizione: il ricatto non educa.

9. Infine, se ci è possibile, usciamo qualche volta, andiamo a cena 'fuori'. È vero che il portafoglio potrà essere un po' dissanguato, ma per la 'tenuta' della famiglia non mancherà un bel risultato!

«Guardatemi!»

Molti anni fa, Thornton Wilder scrisse una bellissima commedia, Piccola città. Una delle scene dell'opera colpisce invariabilmente gli spettatori. Si tratta della morte di una giovane signora, Emily, colpita da infezione dopo aver dato alla luce un bambino.

La conducono al cimitero, e le chiedono: «Emily, puoi ritornare a vivere un giorno della tua vita. Quale preferisci?». E lei dice: «Oh, ricordo com'ero felice il giorno del mio dodicesimo compleanno. Vorrei ritornare al mio dodicesimo compleanno».

In coro i morti del cimitero tentano di dissuaderla: «Emily, non farlo. Non farlo, Emily». Ma lei insiste. Vuole rivedere la mamma e il papà.

Così cambia la scena, e lei è lì, dodicenne, nel giorno meraviglioso del suo ricordo. Scende le scale, con un bell'abitino e i riccioli ondeggianti. Ma sua madre è così indaffarata a preparare la torta per il compleanno che non ha neppure il tempo di guardarla. Emily dice: «Mamma, guardami, sono io la festeggiata». E la mamma: «Benissimo, signorina festeggiata. Siediti e fai colazione». Emily resta in piedi e dice: «Mamma, guardami». Ma la mamma non la guarda. Entra il papà, ed è così occupato a guadagnare denaro per lei che non l'ha mai guardata; neppure suo fratello la guarda perché è troppo preso dalle sue faccende e non ha tempo. La scena finisce con Emily al centro del palcoscenico, che dice: «Per favore, qualcuno mi guardi. Non ho bisogno della torta né del denaro. Guardatemi, per favore». Naturalmente nessuno l'ascolta. Allora lei si rivolge ancora una volta alla madre: «Per favore, mamma». Poi si volta e dice: «Conducetemi via. Ho dimenticato com'erano le creature umane. Nessuno guarda gli altri. Nessuno se ne cura più, vero?».

Nessuno l'ascolta. Nessuno la guarda.

Ed Emily muore per sempre!

Emily esprime il bisogno fondamentale di tutti i figli (e di tutti gli esseri umani): «Il bisogno di esistere», il bisogno di essere riconosciuto, di essere considerato importante.

Autore: Pino Pellegrino

Fonte: biesseonline.sdb.org

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mercoledì 10 marzo 2021

Educare non è dare ordini, ma chiedere imprese

 EDUCARE NON E’ DARE ORDINI, MA RICHIEDERE IMPRESE

Alcuni semplici consigli per genitori ed educatori


Ricordarsi

«Tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano». È la dedica de Il piccolo principe dello scrittore francese Antoine De Saint-Exupéry.

Ricordarsi d'essere stati bambini anche noi è una potente medicina alle nostre pretese nei confronti dei piccoli. Significa essere più pazienti; non strattonare il bambino che ha voglia di fermarsi per assaggiare il mondo che ancora non conosce; non perdere le staffe quando si sporca, o quando fa schizzare l'acqua delle pozzanghere.

Ricordarsi d'essere stati bambini è pensare che la nostra è una società adulto-centrica: centrata sugli adulti, fatta per gli adulti.

Che guaio nascere piccoli, oggi!

I pavimenti si sporcano, i porta-cenere si rompono, le pareti si rigano... per non combinarne una delle sue, il bambino dovrebbe nascere “mummia”! È un'immensa fatica per il piccolo uscire vivo da certi genitori che non si ricordano d'essere stati, un tempo, anche loro, bambini.

Il benessere

«A mio figlio non deve mancare niente...» È, ormai, una specie di ritornello di tanti genitori. E così la distanza tra il desiderio e la sua realizzazione è diventata, via via, sempre più breve fino ad azzerarsi.

Sono scomparse l'attesa e la conquista che erano stati efficaci ormoni di crescita psicologica.

Il desiderio ha perso la sua spinta creativa. Tutto è lì pronto. L'uomo trova tutto, meno lo sforzo.

Il che vuol dire: l'uomo non trova più l'uomo.

Quando la persona umana non ha più da faticare, da combattere, da raggiungere, da costruire, da battersi per qualcosa o per qualcuno, è come se fosse morta.

Il troppo benessere non è una meta: è una trappola.

Parole-perle

Il simpatico scrittore italoamericano Leo Buscaglia termina il suo libro Papà con alcune frasi che il padre, di tanto in tanto, lasciava cadere a tavola oppure nei momenti più impensati.

Quelle frasi hanno costruito nel figlio uno schema morale tale da reggerlo per tutta la vita.

Il papà gli diceva:

«È fondamentale amare».

«Le persone sono buone se si dà loro la possibilità di esserlo».

«La dignità è essenziale per vivere».

«Non tradire mai te stesso!».

«Canta, balla, e ridi quanto puoi!».

«Resta vicino a Dio!».

«La crudeltà è segno di debolezza».

«La gente che crede di saper tutto può essere pericolosa».

«Non costa niente essere gentili».

Parole-perle che hanno bussato e sono entrate nell'anima del figlio.

Ha ragione il poeta tedesco J.P.F. Richter a dire che «le parole che un padre dice ai figli nell'intimità della casa nessuno le sente al momento, ma alla fine la loro eco raggiungerà i posteri».

Lanciare sfide

Un grande maestro di chitarra, Doc Watson, divenne cieco quando aveva appena due anni. I suoi famigliari, però, non gli diedero mai la sensazione di considerarlo un minorato.

«I miei fratelli, mi portavano fuori a giocare con loro» ricorda. «Io mi arrampicavo sugli alberi e cadevo come tutti gli altri. Imparai così il concetto di spazio e a trovare le cose orientandomi sull'eco dei suoni».

Suo padre ebbe un'importanza speciale nell'aiutarlo ad aumentare la fiducia in se stesso.

«Avevo undici anni» ricorda Watson, «poco prima che la chitarra entrasse nella mia vita, papà mi porse un piccolo 'banjo' e mi disse: “Prendi, figliolo! Se imparerai a suonare bene questo strumento, potrà aiutarti ad affrontare il mondo!” Invece di relegarmi in un angolino dicendomi: “Figlio mio, sei un povero cieco” mi lanciava sfide!»

Quante ali tarpate per mancanza di proposte! Educare non è dare ordini, ma chiedere “imprese”.

Autore: Pino Pellegrino

Fonte: biesseonline.sdb.org

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