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mercoledì 27 novembre 2019

Come gestire le emozioni dei bambini

COME GESTIRE LE EMOZIONI DEI BAMBINI

7 CONSIGLI UTILI

Quando un genitore si trova davanti a un'esplosione emotiva del proprio bambino: rabbia e paura, tristezza e disgusto, sorpresa e felicità, spesso non sa come gestirla.

"Non esistono ricette per essere buoni genitori" scrive Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell'età evolutiva,  nel suo libro "L'educazione emotiva" (Fabbri Editori), ma secondo recenti ricerche scientifiche basate sulle neuroscienze quello che può far la differenza è l'educazione emotiva: cioè far sentire il proprio figlio compreso e accolto nelle sue emozioni. "L'adulto deve diventare un allenatore emotivo" spiega Pellai.

Le emozioni primarie sono: rabbia, tristezza, disgusto, paura, sorpresa e felicità, dalle quali poi derivano le secondarie che sono: ansia, timore, terrore, angoscia, desolazione.

Ecco quindi sei esempi pratici su come un genitore deve gestire queste emozioni e quali strategie mettere in atto per contenerle

1. Educazione emotiva: il genitore deve "sentire" il proprio figlio
Il genitore, oltre alle funzioni primarie di cura e accudimento, deve occuparsi della crescita serena del proprio figlio. Per far questo è fondamentale che empatizzi con lui. Il bambino deve essere "sentito e compreso" a livello profondo nella mente dei suoi genitori. "Un bambino crescerà tanto più sicuro e protetto quanto più avrà al suo fianco adulti capaci di sentire e pensare ciò che lui sente e pensa e che, comprendendo i suoi stati mentali, forniranno risposte e soddisfazione a quei bisogni che lui non sa esprimere".
 
2. Gestire la rabbia: create in casa un "angolo" dove il piccolo possa sfogarsi
"Le basi per una sana gestione della rabbia vengono costruite in età infantile e derivano dalla competenza con cui gli adulti sanno dare risposta ai bisogni del bambino sin da neonato".
Quando il bambino è in preda alla rabbia e sta facendo un capriccio, il genitore emotivamente competente non deve cadere nel copione "tu sei mio nemico", ma trasformare questa opposizione in cooperazione.
Insomma davanti a un mega capriccio, il genitore anziché perdere il controllo a sua volta deve dimostrare con i fatti che le emozioni forti sono gestibili e noi adulti ne siamo capaci.

Pellai consiglia di stabilire in casa un angolo dove accompagnare i bambini che stanno facendo i capricci, un angolo dove l'emozione possa essere scaricata fino a esaurirsi, così che poi in casa torni la calma e genitore e bambino possano sentirsi nuovamente alleati.

Si trattata di uno spazio di decantazione. Il genitore, accompagnando il bambino, può dire: "Visto che sei così arrabbiato, ora ti metto nell'angolo della rabbia. Qui puoi urlare quanto vuoi, poi quando ti sei calmato puoi uscire, così facciamo qualcosa di bello insieme".
Nell'angolo della rabbia il bambino impara a recuperare il controllo di sé: questo processo si chiama autoregolazione emotiva.

3. Gestire la tristezza: un massaggio al cuoricino
"Gli adulti non amano vedere i bambini tristi. La tristezza è considerata una specie di tabù".
E' per questo che quando un bambino la sperimenta, tende a chiudersi in se stesso, mentre invece dovrebbe essere aiutato a raccontarla e a condividerla.

Per esempio di fronte a un lutto si tende a dire al bambino che il nonno è partito per un lungo viaggio... Il bambino sperimenterà comunque la tristezza di non vedere più il nonno, in più sarà spaesato dalle false verità che lo circondano.

"Il mondo è pieno di uomini che non sapendo gestire la tristezza diventano violenti, oppure di persone che nascondono la propria tristezza buttandosi nel lavoro o in altro pur di riempire un vuoto".

Quindi se vediamo nostro figlio triste, anziché cercare di rallegrarlo, abituiamolo a riconoscere questa emozione e aiutiamolo a superarla.

"La cosa migliore è un bel massaggio intorno al suo cuoricino spiegando in modo preciso che cosa pensiamo lo renda così triste! Ad esempio possiamo dirgli: "Piccolino, sei triste perché hai perso il tuo giocattolo preferito, chissà dove si troverà ora? Possiamo andare al parchetto a cercarlo, se poi non lo troviamo, andremo in un negozio a sceglierne uno nuovo assieme".

Così il bambino avverte che la sua emozione viene riconosciuta e compresa,intanto la mano che lo massaggia lo medica proprio là dove sente il "dolore". Inoltre nella narrazione il genitore propone una soluzione per superare il problema.  In questo modo la relazione genitore-figlio ne uscirà rafforzata sul piano della competenza emotiva.
 
 4. Gestire il disgusto: se a tavola non vuole mangiare, provate il gioco del pranzo bendato
"Il disgusto è l'emozione che si prova davanti a qualcosa che percepiamo come pericolosa per la nostra sicurezza".

Le prime manifestazioni di disgusto i bambini le hanno in relazione al sapore del cibo che portano alla bocca. E questa emozione viene espressa in modo esagerata dai piccoli con l'espressione: "Che schifo".

Quando i bambini riportano questa frase a tavola non è tanto perché trovano disgustoso il cibo, quanto perché vorrebbero trovarvi alimenti più saporiti e appetitosi. 

"Come genitori abbiamo il dovere di aiutare i nostri bambini ad apprezzare tutti i gusti e tutti i sapori". Perciò, di fronte a un bambino che a tavola ci dice "non mi piace, mi fa schifo" dobbiamo chiarire che nessun cibo è schifoso in quanto è stato preparato con amore da chi gli vuole bene. E che il nostro corpo ha bisogno non solo di cibi golosi ma anche nutrienti e ricchi di vitamine.

Detto questo, provate con il gioco del pranzo bendato: sistemate nel piatto cinque piccole porzioni di cibi differenti (anche quelli non graditi), poi con gli occhi bendati chiedetegli di assaggiare tutto e indovinare che cosa mette in bocca.

Così il piccolo imparerà che quel cibo che chiamava schifoso può essere, invece, buono.

5. Gestire la paura del buio: il gomitolo di lana
"La paura è un'emozione che ha molti modi di manifestarsi. C'è chi ha paura del buio, chi dei cani, chi del temporale..." Quasi tutti i bambini, nel corso della prima e seconda infanzia hanno molte paure, ma la vicinanza emotiva dell'adulto può aiutarli a superarle. Ed è uno dei primi e più efficaci allenamenti emotivi.

Se un bambino ha una paura, anche molto irrazionale, il genitore deve sforzarsi di entrare nella mente del figlio e comprendere questo terrore. Ad esempio se un piccolo ha paura del temporale, dovete accettare questa emozione, ma anche trovare un modo per gestirla e quindi controllarla.

Se per esempio vostro figlio ha paura del buio e quando va a nanna vuole che gli rimaniate accanto fino a quando si addormenta, provate con il trucco del gomitolo di lana: vostro figlio a letto terrà in mano il filo, mentre voi lo srotolate e vi sedete fuori dalla camera con il gomitolo in mano. Quando il piccolo sente la paura arrivare potrà tirare il filo, in questo modo avvertirà la vostra presenza.

Il filo simbolizza il legame che  c'è con i genitori anche quando sono lontani.

6. Gestire la sorpresa: l'emozione che vi può aiutare a motivare vostro figlio
"La sorpresa è l'emozione che ci coglie quando la vita ci pone di fronte a qualcosa di imprevisto. Può essere una cosa positiva, ma esiste anche il versante negativo".

I genitori possono però usare l'emozione della sorpresa in modo costruttivo. Per esempio dire a un bambino: "Se sarai bravo, poi ti darà una sorpresa" è una frase vincente per aiutarlo a conquistare un traguardo e un obiettivo educativo condiviso. Al piccolo non interesserà tanto l'oggetto ma la sorpresa in se stessa.  La sorpresa è qualcosa che uno non si aspetta e quindi sta a significare: "Ti ho pensato, ti voglio bene, per me sei importante". 

Un gioco che può aiutarvi a motivare il piccolo è il sacchetto delle sorprese.
Se volete che il vostro bambino riesca a conquistare una tappa di autonomia che vi sta a cuore (a nanna presto, lavarsi le mani prima dei pasti, mettere in ordine i giochi...), promettetegli il suo sacchetto della sorpresa una volta che avrà conseguito l'obiettivo proposto. Ogni giorno potete metterci dentro un piccolo regalino che gli consegnerete alla sera se l'obiettivo proposto e discusso con lui è stato conseguito. 

7. La felicità: è un'emozione che va condivisa
"La felicità è un'emozione che ci spinge verso le esperienze più belle della vita".

Anche la felicità è un'emozione che ha bisogno di condivisione. "Se mamma e papà partecipano alla mia felicità, il mondo è un posto bello in cui vivere" pensa il bambino felice. 
Un bambino che prova tanta felicità si sente disorientato se si trova davanti un adulto incapace di cogliere e condividere con lui questa sua emozione.

"Non solo dobbiamo portare felicità nella vita dei nostri bambini, ma dobbiamo anche riconoscere quando loro sono felici. 
Un suggerimento per creare condivisione è fare dei piccoli album fotografici dei ricordi felici. "Sarà bellissimo sfogliarli insieme ai figli e rivivere di nuovo insieme a loro gli accadimenti in cui avete condiviso quella bellissima emozione".

L'albume dei ricordi felici sarà un tesoro da conservare preziosamente del tempo.

Autrice: Federica Baroni
Fonte: www.nostrofiglio.it
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mercoledì 13 novembre 2019

Cosa pensano gli adolescenti?

COSA PENSANO GLI ADOLESCENTI?
Perché la vita con gli adolescenti sembra sempre un estenuante tiro alla fune? Possibile che i genitori siano sempre sbagliati ai loro occhi? Questa lettera è stata scritta da Gretchen L Schmelzer, una psicologa e scrittrice statunitense, e dovrebbe essere inserita tra le letture obbligatorie del manuale del genitore dell’adolescente.


Caro Genitore,
Questa è la lettera che vorrei poterti scrivere.
Questo conflitto in cui siamo, ora. Ne ho bisogno. Ho bisogno di questa lotta. Non te lo posso dire perché non ho il lessico per farlo e comunque non avrebbe senso quello che direi. Ma ho bisogno di questa lotta. Disperatamente. Ho bisogno di odiarti ora, e ho bisogno che tu sopravviva a questo odio. Ho bisogno che tu sopravviva al mio odiare te, e al tuo odiare me. Ho bisogno di questo conflitto anche se pure io lo detesto. Non importa neanche su cosa stiamo litigando: l’ora di rientro a casa, i compiti, i panni sporchi, la mia stanza incasinata, uscire, restare a casa, andare via di casa, vivere in famiglia, ragazzo, ragazza, non avere amici, avere cattivi amici. Non importa. Ho bisogno di lottare con te su queste cose e ho bisogno che tu lo faccia con me.
Ho disperatamente bisogno che tu mantenga l’altro capo della corda. Che ti ci aggrappi forte mentre io strattono il capo dalla mia parte, mentre cerco di trovare appigli per vivere questo mondo nuovo cui sento di affacciarmi. Prima sapevo chi fossi io, chi fossi tu, chi fossimo noi. Ma ora, non lo so più. In questo momento sto cercando i miei confini, e a volte riesco a trovarli solo quando tiro questa fune. Quando spingo tutto quello che conoscevo al suo limite. Allora io mi sento di esistere, e per un minuto riesco a respirare. E lo so che ti manca tantissimo il bambino dolce che ero. Lo so, perché manca anche a me quel bambino, e a volte questa nostalgia è quello che rende tutto doloroso per me al momento.
Ho bisogno di questa lotta e ho bisogno di vedere che, non importa quanto tremendi o esagerati i miei sentimenti siano, non distruggeranno me, né te. Ho bisogno che tu mi ami anche quando sono pessimo, anche quando sembra che io non ti ami. Ho bisogno che tu ami te stesso, e me, che tu ci ami entrambi e per conto di tutti e due. Lo so che fa male essere antipatici, avere etichette di quello marcio. Anche io provo la stessa cosa dentro, ma ho bisogno che tu lo tolleri, e che ti faccia aiutare da altri adulti per farlo. Perché io non posso in questo momento. Se vuoi stare insieme ai tuoi amici adulti e fare un “gruppo-di-mutuo-supporto-per-sopravvivere-al-tuo-adolescente”, fa’ pure. O parlare di me alle mie spalle, non ho problemi. Basta che non rinunci a me, che non rinunci a questo conflitto. Ne ho bisogno.
Questo è il conflitto che mi insegnerà che la mia ombra non è più grande della mia luce. Questo è il conflitto che mi insegnerà che i sentimenti negativi non significano la fine di una relazione. Questo è il conflitto che mi insegnerà come ascoltare me stesso, anche quando sono una delusione per gli altri.
E questo conflitto particolare, finirà. Come ogni tempesta, sarà spazzata via. E io dimenticherò, e tu dimenticherai. E poi tornerà da capo. E io avrò bisogno che tu regga la corda di nuovo. Di nuovo e di nuovo, per anni.
Lo so che non c’è nulla di intrinsecamente soddisfacente in questa situazione per te. Lo so che probabilmente non ti ringrazierò mai per questo, o neanche te ne darò credito. Anzi probabilmente ti criticherò per tutto questo duro lavoro. Sembrerà che niente che tu faccia sia mai abbastanza. Eppure, io faccio affidamento interamente sulla tua capacità di restare in questo conflitto. Non importa quanto io polemizzi, non importa quanto io mi lamenti. Non importa quanto mi chiuda in silenzio.
Per favore, resta dall’altro capo della fune. E lo so che stai facendo il lavoro più importante che qualcuno possa mai fare per me in questo momento.
Con amore, il tuo teenager.
Fonte: genitori crescono.com

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mercoledì 6 novembre 2019

Strategie pedagogiche per ottenere ciò che si vuole dai figli

STRATEGIE PEDAGOGICHE PER OTTENERE CIO' CHE SI VUOLE DAI FIGLI
L’arte di educare conosce alcune strategie, alcune ‘astuzie’ pedagogiche sagge e valide.

Secondo il nostro stile che non ama i gargarismi, ecco subito qualche esempio.
Uno dei più diffusi tormentoni delle mamme italiane è riuscire a far mangiare il bambino.
Ebbene, vogliamo che mangi? Non supplichiamolo perché mangi! Pratichiamo, cioè, la strategia dell’indifferenza.
Insistere tanto sul mangiare significa mettere in mano al piccolo un’arma con cui ricattarci, un’arma che il bambino saprà usare in tutti i modi, pur di attirare su di sé la nostra attenzione.
Mostrandoci indifferenti, invece, siamo noi a tenere la situazione in mano.
“Non mangi? Va bene lo stesso! Mangerai quando avrai fame!”.
Calme, mamme! Nessun pericolo che il bimbo muoia di fame! Garantito! All’istinto della fame non si può resistere!
Fino a questo momento, nessun bambino al mondo, avendo del cibo a disposizione, è morto di fame! Quando avrà fame, il bambino mangerà!
Vogliamo far arrivare qualche messaggio al figlio adolescente?
Pratichiamo la strategia del metodo indiretto.
Tutti sappiamo che gli adolescenti fanno cortocircuito con il metodo frontale che li prende di mira in modo diretto (il maledetto metodo della ‘predica’!).
Dunque, se vogliamo dire qualcosa al ragazzo (e qualcosa dobbiamo pur dirgli, per non essere genitori puramente ‘allevatori’ ma anche ‘educatori’!), parliamogli senza chiamarlo direttamente in causa.
Esempio: siamo a tavola, parliamo tra noi, madre e padre, sul programma televisivo visto ieri sera e diamo il nostro giudizio negativo sulle parolacce, sulla violenza, sul sesso sfacciato… Il figlio, mentre continua a mangiare la pastasciutta, sente e viene a conoscere qual è il nostro quadro valoriale che, forse, non collima con quello degli insegnanti e degli amici. In tal modo abbiamo parlato al figlio, senza suscitare la reazione tipica dell’adolescente!
Molto vicina alla strategia del metodo indiretto è la strategia della chiacchierata informale.
Siamo in piazza e stiamo parlando del più e del meno con un gruppo di conoscenti ed amici.
Ad un tratto il figlio, che ha scorazzato di qua e di là, si avvicina e sente (meglio:ascolta!) le nostre opinioni sulla politica, sulla religione, sulla società d’oggi...
è incredibile l’influsso che possono avere sull’animo del figlio le nostre parole dette spontaneamente, senza filtro!
Ha tutte le ragioni il semiologo e scrittore Umberto Eco a dire “credo che si diventi quello che ci ha insegnato nostro padre nei momenti morti mentre non si preoccupava di educarci”.
Altro esempio di strategiapedagogica è quella della reazione morbida.
Il bambino strepita? La madre gli risponde con tutta calma (facile dirlo!):“Non capisco niente! Se non abbassi la voce, le mie orecchie sono sorde”.
Il bambino fa capricci? La madre resta tranquilla (anche qui, facile a dirlo!), continua a stirare calma e serena, tutt’al più una carezza sul capo.
Questa è la strategia della reazione morbida.
Dicono che, sovente, funzioni; certo è una strategia intelligente: rispondere al capriccio del bambino con una nostra escandescenza è come voler spegnere il fuoco, versandovi sopra benzina!
Attenti ai tempi morti
Forse educhiamo quando meno pensiamo di educare.
Subito la prova: il padre incontra per strada un bisognoso che chiede aiuto: gli posa due euro sulla mano tesa, mentre il figlio vede; la madre è in chiesa: prega in silenzio, concentrata, intanto il figlio osserva.
Ecco due esempi di splendida educazione non direttamente voluta, educazione che supera di gran lunga quella realizzata con una valanga di parole sull’amore del prossimo e sulla fede in Dio.
Rientrano anche nella strategia dei ‘tempi morti’ le parole che lasciamo cadere senza preavviso, come la cosa per noi più naturale del mondo. Mentre siamo a tavola, il papà, ad un tratto, dice: “Le parolacce sono come il raglio dell’asino nel bel mezzo di un concerto!”. La madre, vedendo la reclame di un parrucchiere, esclama: “Non basta avere i capelli in ordine, bisogna anche avere le idee ordinate”…
Parlare in questo modo non offende nessuno, neanche il figlio adolescente sempre (e giustamente!) così allergico alle ‘prediche’.
Non solo, ma le parole dette senza preavviso, sovente hanno un fortissimo impatto sul figlio perché rivelano i nostri pensieri più intimi, le nostre opinioni, i nostri Valori che ci portiamo dentro.
Mi ha sempre colpito la confessione del professore Leo Buscaglia il quale rivela che si è costruito la sua morale sulle parole che il padre lasciava cadere a tavola, durante la cena.

Questo dico al figlio
“Se stai solamente con chi la pensa come te, tanto vale vivere con i pappagalli!”.
“Non lasciarti imbottigliare dal vino!”.
“è meglio mostrare la testa che l’ombelico”.
“Chi vince gli altri è muscoloso. Chi vince se stesso è forte”.
“Non c’è niente d’intelligente ad esser triste”.
“Non curarti dei commenti, se in regola ti senti”.
“Grinta e coraggio ci mantengono in vantaggio”.
“Dove entra il bere, esce il sapere”.
Che ne dite?

“Se i genitori riuscissero soltanto a capire quanto annoiano i figli!” (Bernard Shaw).
“A 27 anni al massimo, buttateli fuori di casa, come ho fatto io. Un giorno vi ringrazieranno” (Maria Luisa De Rita).
“Un sorriso al bambino è meglio del pannolino ben sistemato” (Benjamin Spock).
“A volte curo la madre ed il bambino guarisce” (Marcello Bernardi).
“Come terapia indico dieci chilometri di bicicletta assieme al padre, ogni domenica. Il tempo con il padre è una cosa fondamentale!” (Giovanni Bollea).

Autore: Pino Pellegrino
Fonte: www.biesseonline.org

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mercoledì 30 ottobre 2019

7 frasi che distruggono i bambini

7 FRASI CHE DISTRUGGONO I FIGLI 

La rabbia, la stanchezza e la frustrazione che derivano dai problemi quotidiani possono esasperarci e farci dire cose che in realtà non pensiamo. Quelle che riportiamo sono alcune delle combinazioni peggiori di parole che possiamo dire ai nostri figli, indipendentemente dalla loro età, ma soprattutto ai bambini piccoli. Gli effetti di queste parole possono andare al di là di quello che immaginate e di ciò che i vostri figli possono controllare.

Leggete con attenzione e pensate molte volte prima di dire frasi come queste…

1. “NON FAI MAI NIENTE DI GIUSTO”

A nessuno piacerebbe sentirsi dire una cosa del genere. Se vostro figlio ha commesso un errore o ha rotto qualcosa, respirate profondamente e pensate a ciò che è più importante. La risposta sarà sempre la stessa: i vostri figli sono più importanti di qualsiasi altra cosa.

2. “VORREI CHE ASSOMIGLIASSI DI PIÙ A TUO FRATELLO”

Non guadagniamo niente paragonando i nostri figli, ma possiamo creare dei risentimenti tra i membri della famiglia. Fate attenzione a evitare qualsiasi paragone. Siamo tutti diversi e unici, e tutti siamo speciali a modo nostro.

3. “SEI GRASSO/BRUTTO/STUPIDO”

I nostri figli credono a tutto ciò che diciamo. Per loro siamo la fonte più affidabile di informazioni e anche la principale fonte d’amore. Non danneggiate l’autostima dei vostri figli con aggettivi negativi. È meglio riconoscere i loro punti di forza anziché sottolineare quelli negativi.

4. “MI VERGOGNO DI TE”

Se vostro figlio ha la tendenza ad attirare l’attenzione in pubblico, facendo cose come gridare, correre e cantare perché tutti lo notino, forse ha solo bisogno di più attenzione. Non dite cose come questa di fronte ai suoi amici, né in privato. Perché non organizzare uno spettacolo in casa di cui sia il protagonista principale? Forse scoprirete il suo lato artistico e vi divertirete in famiglia.

5. “VORREI CHE NON FOSSI MAI NATO”

Non riesco a pensare a niente di peggio che si possa dire a un bambino. Mai, in nessuna circostanza, dovete dire una cosa del genere ai vostri figli, neanche per scherzo. Tutti abbiamo bisogno di sapere che siamo desiderati e amati, indipendentemente dagli errori che commettiamo.

6. “MI SONO STANCATO/A, NON TI VOGLIO PIÙ BENE”

A volte, senza rendercene conto, cadiamo nei giochi di parole dei nostri figli. Vostro figlio fa i capricci. Dopo avergli spiegato varie volte perché non deve fare questo o quello, si innervosisce, si mette a piangere e dice che non vi vuole più bene. La risposta più facile sarebbe dirgli la stessa cosa, ma sarebbe dannosissimo. La reazione corretta sarebbe spiegargli di nuovo perché non può fare una certa cosa e ricordargli che l’amerete sempre, anche se è molto indisciplinato con voi. Imparerà molto più di quanto potete immaginare.

7. “NON PIANGERE, NON È NIENTE DI SERIO”

“Quanto possono essere grandi i problemi dei bambini? Sono solo bambini, non hanno preoccupazioni, tristezze, delusioni e paure”. È un errore che noi adulti commettiamo spesso. I bambini hanno una capacità emotiva pari o addirittura superiore agli adulti. La differenza è che non si possono esprimere e calmare come noi. E allora, i loro problemi non saranno in qualche modo anche maggiori? Non sminuite mai una paura, un dubbio o un conflitto che vostro figlio sta attraversando. Aiutatelo a superare il problema e a reagire in modo sano.

CONCLUSIONE

Con piccoli aggiustamenti e considerando sempre i sentimenti e il benessere dei nostri figli, possiamo evitare queste frasi tanto negative e avere un rapporto d’amore, protezione e benessere in famiglia.

Autore: Roberta Sciamplicotti

Fonte: Aleteia

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mercoledì 23 ottobre 2019

Tutti hanno qualcosa da insegnarci. I 5 pilastri della filosofia masai.

TUTTI HANNO QUALCOSA DA INSEGNARCI.

I 5 PILASTRI DELLA SPIRITUALITA' MASAI.

Di loro, conosciamo solo la lunga e fiera figura drappeggiata di rosso. I Masai, un popolo di pastori e guerrieri, comparse fotogeniche nei film e nei documentari sul Kenya. Quello che pochi sanno è che essi si trasmettono di generazione in generazione una ricca spiritualità, vissuta quotidianamente, di portata universale e che concepisce l'uomo come co-creatore dell'universo.

1. ILMAO: accettare la dualità 

I Masai pensano che tutte le cose sono collegate tra loro per formare coppie di elementi complementari. La dualità regna nella natura, come il giorno e la notte, la pioggia e la siccità e dentro le persone, dove si scontrano impulsi altruistici e desideri egoistici, paura e coraggio, generosità e avidità, ecc. Non pensarci significa soffrire ed essere in conflitto con gli altri. Da qui la necessità di accettare la dualità del mondo e delle persone con pazienza e gentilezza. 
In pratica. Identifica le “qualità gemelle” che sono in te. Elenca le tue caratteristiche e correla ognuna di esse con qualche difetto o comportamento che possono averti portato a fallimenti o conflitti. Cerca la coerenza e l'equilibrio, guarda te stesso e gli altri con uno sguardo sfumato e indulgente. 


2. ENCIPAÏ: essere nella gioia 
“Tutta la mia famiglia sta bene. La siccità persiste e non abbiamo nulla da mangiare. Domani andrò al fianco della Montagna Rossa e troverò dell'acqua”. E possono anche aggiungere: “Non ho sentito nessuna brutta notizia”. Quando i Masai devono annunciare cattive notizie, la circondano con due notizie positive. Per loro, la gioia non è un obiettivo, ma un punto di partenza. È la manifestazione del legame vivo che li unisce alla Divinità suprema, fonte di tutta la vita. La gratitudine alimenta la gioia, che a sua volta rafforza il sentimento di gratitudine. Gratitudine per essere vivi, per poter mangiare, per poter condividere prove e celebrazioni... Condividere e gioire insieme, evidenziare ciò che sta andando bene, mostrare umorismo sono tutte pratiche che mantengono la gioia di vivere ogni giorno. Essere in gioia è anche una forma di cortesia che dobbiamo agli altri, genera un conforto relazionale di cui tutti beneficiano. 
In pratica. Coltivare la gratitudine su base quotidiana, a partire dalla consapevolezza dei doni, per quanto piccoli, che si ricevono. Regala tempo, complimenti, consigli, tutte quelle piccole cose che ammorbidiscono e abbelliscono i giorni di chi ti circonda. Sii sempre positivo “racchiudendo” un pensiero o un fatto negativo tra due pensieri o fatti positivi, come fanno i Masai. 
Ricollegati all'energia della natura. Sentiti parte della grande catena della vita. Non c'è niente come appoggiarsi a un albero e perdere lo sguardo nel fogliame fino a sentirsi uno con esso per ritrovare la serenità e la forza interiore. Due elementi che compongono la felicità dell'essere. 


3. OSINA KISHON: la sofferenza è un'opportunità 
Senza sofferenza, non c'è risveglio. Questa è la profonda convinzione dei Masai, che vedono nel dolore l'opportunità di crescere. Lo testimonia uno dei loro sacri proverbi: “La carne che non è dolorosa non sente nulla”. In questa prospettiva, ringraziano la dea madre per aver messo la prova e l'opportunità sul loro cammino. 
In pratica. Procedere come i Masai, che visualizzano le loro emozioni (paura, tristezza, rabbia, scoraggiamento, desiderio di vendetta...), le trasformano in nodi di una corda che poi bruciano. 


4. EUNOTO: diventa un seminatore 
All'atteggiamento del costruttore, i Masai preferiscono l'atteggiamento del seminatore. Mentre il primo si concentra esclusivamente sul raggiungimento dell'obiettivo che si è prefissato, il secondo pianta il suo albero, se ne prende cura, accetta tutti i rischi. Concretamente, essere piantatore significa mettersi al passo con il momento presente, adattandosi e mantenendosi in uno stato tra vigilanza e fiducia, volontà e umiltà. Questa flessibilità è un fattore di serenità, pazienza e protegge dalla rabbia e dalla delusione. 
In pratica. Pianta un albero, prenditi cura di una pianta. Questo ti incoraggerà a mettere momentaneamente in disparte il “voglio” e ti aiuterà ad affrontare semplicemente ciò che avviene. 


5. AINGORU ENKITOO: cerca il giusto ordine 
Essere nel giusto, nelle parole e nelle azioni, significa per i Masai essere collegati alla Divinità suprema. Problemi, scontri, conflitti, agitazione sono segni che ci siamo allontanati dalla nostra “missione”. Per i Masai, essere alla ricerca dell'ordine è anche cercare ciò che si è venuto a fare sulla Terra. 
In pratica. Ascolta i messaggi del tuo corpo quando hai fatto una scelta, preso una decisione. Se hanno ragione, sotto emozioni superficiali (apprensione, eccitazione), si deve sentire un'onda di calma, un senso 
di pace interiore, che può essere tradotto in parole come “non è facile, ma è giusto”.


Xavier Péron 
Xavier Péron, antropologo, vive con i Masai da più di trent'anni. Secondo lui, la loro spiritualità può essere tradotta in queste linee di forza: superare le paure, rimanere connessi, non creare divisioni dentro e intorno a se stessi, approfittare delle prove, vivere la realtà presente. 
«Per gli uomini separati, dispersi e agitati che siamo diventati, mi sembra importante diffondere il loro messaggio di chiamata all'unità interiore, all'apertura della coscienza, due fermenti essenziali di una vita più giusta e più umana insieme».

Autore: Carmel Caval

Fonte: www.biesseonline.org

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mercoledì 16 ottobre 2019

I figli li amiamo o li demoliamo?

I FIGLI LI AMIAMO O LI DEMOLIAMO?

Noi siamo, tutti quanti, il prodotto di coloro che ci hanno amati o che si sono rifiutati di amarci

 

La domanda è forte, ma su certi temi non si può essere morbidi. Quando si parla d'Amore non si può scherzare. Con l'amore non si gioca: con l'amore si vive! Ecco perché quando si parla d'amore il discorso va preso di petto.

Dunque, che cosa significa amare i figli?

L'istinto non basta: “I figli non si amano perché sono i nostri. Si amano perché si impara ad amarli!” ci avverte il nostro autorevole pediatra Marcello Bernardi. Amare è sempre un'arte da imparare! Tanto più lo è l'amore pedagogico, cioè l'amore dei genitori che si impegnano a far fiorire il figlio in tutte le sue potenzialità.

Tale amore ha connotati diversi dall'amore coniugale, come da quelli dell'amore sociale.

Ebbene, chi va a scuola dall'arte dell'amore pedagogico, impara che vi sono amori educanti e amori devastanti.

Amori devastanti

Ci limitiamo ai tre più insidiosi.

Amare non è strafare.

Ha tutte le ragioni il proverbio: “La mamma troppo valente, fa la figlia buona a niente!”. La madre che continua a sbucciare l'arancia al figlio che ha, ormai, otto anni, non lo ama, ma gli ruba un'esperienza.

Amare non è eleggere il figlio a capofamiglia.

Mettere il bambino al centro (“Che cosa vuoi per cena?”. “Dove vuoi che facciamo le vacanze quest'anno?”) è preparare un futuro despota, un candidato al bullismo.

Amare non è piacere sempre.

Arrendersi al figlio, sta all'amore come la sabbia sta alla farina. Il vero amore sovente è severo, fermo, deciso. L'amore vero non abolisce i 'no', non annulla le 'regole', anzi, le esige.

Passiamo agli amori che sono fattori di crescita.

Amori educanti

Amare è accettare il figlio.

Anche se non corrisponde ai nostri desideri, ai nostri sogni. A proposito, il famoso psichiatra austriaco Bruno Bettelheim ci ha lasciato questo ammonimento: «Non puntate ad avere il figlio che piacerebbe a voi. Abbiate rispetto per quello che il bambino è!».

Amare è rinunciare al possesso del figlio.

È tagliare, al più presto, il cordone ombelicale; difendersi dalla maledetta 'figliolite' che non smette di contagiare le mamme, in particolare quelle italiane (lo notano tutti gli studiosi).

Amare è renderci amabili.

È pulire il proprio carattere forse tortuoso, diffidente, umorale, urticante, variabile, per darsi un carattere festivo, colloquiale, vibratile e tenero, attento e generoso, un carattere solare, perché proprio dal Sole impara: il Sole dà, la Luna prende.

Un simile carattere è educativo per natura sua: una persona tutta amabile irradia fattori di crescita. Non fa ombre.

I figli che hanno la fortuna di avere genitori amabili, ringraziano d'esser nati.

LE MAGNIFICHE LEGGI DELL'AMORE

1. L'amore è come la luna: se non cresce...

2. L'amore non invecchia: matura.

3. L'amore non si divide: si moltiplica.

4. L'amore non si compra, non si vende: si dona.

5. L'amore prima di dire: “Ti dò un bacio”, dice: “Ti dò una mano!”.

6. L'amore o è umile o non è.

7. L'amore che fa economia d'amore, non è vero amore.

8. Amare è ricondurre dolcemente una persona a se stessa.

9. Amare è costruire la felicità di qualcuno.

10. Amare è andare oltre il necessario.

LA FRASE

«Se ciascuno avesse anche solo una persona che nella sua vita gli dicesse: “Ti amerò, indipendentemente da tutto! Ti amerò anche se sei stupido, anche se scivoli e batti il naso, se sbagli, se commetti errori, se ti comporti come un essere umano..., ti amerò ugualmente” allora la gente non finirebbe negli ospedali psichiatrici» (Leo Buscaglia).


Autore: Pino Pellegrino
Fonte: www.biesseonline.org

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mercoledì 9 ottobre 2019

Giocare a far finta

GIOCARE A FAR FINTA

Nello spazio tra realtà e fantasia nasce il gioco del “far finta” che ha un’importante funzione nella crescita del bambino


Per giocare a “far finta” di solito i bambini utilizzano oggetti, azioni, identità e situazioni come simboli, in modo da rappresentare qualcosa che non è presente ma che si può immaginare. Non a caso, infatti, è chiamato gioco simbolico quello dove qualcosa viene utilizzato per “significare” qualcos'altro: un elemento fisicamente presente è usato per rappresentare un elemento assente nella realtà concreta, che viene quindi evocato attraverso la mente. E così una scatola di cartone può diventare una casa, posso fingere di bere senza avere in mano un bicchiere o trasformarmi in una mamma che cucina per i suoi bambini. Il gioco simbolico è un’attività importante, raffinata e impegnativa, che si sviluppa e progredisce durante l’infanzia insieme a diverse abilità e competenze del bambino.

 

I primi approcci

Se osserviamo le attività di un bambino nei primi mesi di vita vedremo che è orientato a giocare con gli oggetti toccandoli, assaggiandoli, annusandoli e facendoli muovere, rotolare, cadere. Insomma, è impegnato a conoscere come sono fatte le cose intorno a lui e lo fa in allegria, utilizzando tutti i suoi organi di senso. Quante volte abbiamo visto un bimbo buttare ripetutamente a terra un giocattolo solo per sentire il rumore provocato dalla sua azione? Imparare è proprio divertente!

Grazie alle sue scoperte, osservazioni e deduzioni, il nostro piccolo “esploratore sensoriale” inizia pian piano a conoscere non solo le caratteristiche, ma anche la funzione degli oggetti e a collegarli a possibili schemi d’azione: «A cosa serve il cucchiaio? Cosa posso fare con un pettine?». In questo svolge un ruolo fondamentale il processo di imitazione: «Replico i gesti e le azioni che vedo svolgersi attorno a me, ciò che fanno i miei genitori». Ed ecco che tra 12 e 18 mesi (chi prima, chi dopo), il bambino comincia a giocare a “far finta di”, ripetendo gesti e azioni conosciuti, spesso rivolti a un estasiato pubblico di adulti che lo incoraggia e sta al gioco: «Prendo in mano il bicchiere e bevo per finta, chiudo gli occhi come se dormissi e poi faccio “cucù”!». Si cresce in fretta e dopo qualche tempo vedremo il nostro piccolo approfondire sempre di più il gioco: esempio classico è quello del caffè finto offerto alla bambola. Il bambino sa che la tazza è vuota e che la situazione è una finzione, ma l’oggetto nel gioco è ancora utilizzato secondo la sua funzione “reale” (in questo caso viene rispettata la funzione della tazza come contenitore di liquido da bere).

 

Un nuovo modo di vedere il mondo

Gli studiosi individuano intorno ai due anni d’età l’inizio del vero e proprio gioco simbolico, quello in cui «il pensiero è separato dagli oggetti e l’azione nasce dalle idee più che dalle cose: un pezzo di legno comincia a essere una bambola e un bastone diventa un cavallo».

Il bambino trasforma gli oggetti facendoli diventare, come per magia, ciò che gli serve per il suo gioco (se ha bisogno di una macchina prende una seggiolina e comincia a guidare), dimostrando di sperimentare una forma di pensiero nuova, che gli permette di vedere oltre le cose, di usare la fantasia e l’immaginazione.

Ciò è possibile anche grazie all’evolversi della cosiddetta “capacità rappresentativa del pensiero”: il bambino riesce a pensare e a immaginare nella sua mente cose, persone e situazioni indipendentemente dalla loro presenza, ed è inoltre capace di creare delle associazioni mentali, cogliendo somiglianze nella forma, nel colore e nelle dimensioni (una matita assomiglia a una bacchetta magica e viceversa).

 

«Facciamo finta che io sono la maestra»

Nel periodo tra i tre e i sei anni le forme del gioco simbolico progrediscono ancora. Se nei primi giochi di finzione era solo il bambino ad avere un ruolo attivo e gli oggetti rimanevano muti, a poco a poco anche pupazzi e bambole prendono vita: il bambino li fa parlare, camminare, recitare una parte.

La struttura e le competenze in gioco si fanno poi ancora più complesse quando i bambini iniziano a mettere in scena delle situazioni, assegnando ruoli alle persone e creando veri e propri copioni: «Facciamo finta che io sono… e tu sei…?». Mamme, papà, indiani, supereroi, maestre, parrucchiere, dottori, gelatai e chi più ne ha più ne metta. A volte sono episodi e contesti del proprio vissuto a essere messi in scena, momenti che il bambino ha bisogno di rivivere, nel mondo protetto della finzione, per trovare un nuovo significato alle proprie esperienze, per sperimentare diversi punti di vista, per “esorcizzare” le proprie paure e tanto altro. Altre volte la creatività permette di superare i propri limiti, di immaginarsi diversi, di proiettarsi nel futuro o nel mondo dei grandi, di esprimersi liberamente mettendo in scena emozioni forti senza la paura di essere giudicati.

In alcune occasioni il bambino chiederà a noi adulti di entrare nel gioco indossando un ruolo diverso (e osserverà con attenzione la nostra risposta). In altri momenti giocherà da solo senza voler essere disturbato. In altri ancora il gioco verrà organizzato con i coetanei e ci saranno litigi per decidere “chi fa cosa” o come andrà a finire la storia inventata: trovare l’accordo sarà una parte importante dell’esperienza e della condivisione del divertimento.

 

Gioco simbolico e teoria della mente

Giocando a far finta i bambini esercitano la propria immaginazione e creatività, sviluppano autoconsapevolezza, imparano a riconoscere le emozioni proprie e altrui, esplorano mondi sconosciuti, esercitano abilità cognitive e relazionali, sviluppano le prime forme di pensiero astratto, arricchiscono il proprio lessico.Giocare a “essere un altro” può inoltre aiutare il bambino a comprendere un punto di vista diverso dal proprio e può costituire un’ottima occasione di osservazione per l’adulto, perché, attraverso la finzione, il bambino racconta sé stesso e il mondo dei grandi che lo circonda.

Le diverse forme di gioco simbolico e di finzione che accompagnano il bambino nella sua crescita sono state, e sono tuttora, oggetto di studi in diverse discipline, in particolare per quanto riguarda il loro legame con lo sviluppo della metacognizione e della teoria della mente. La metacognizione è la capacità di auto-riflettere sui propri pensieri (io posso pensare ai miei pensieri). Grazie all’attività metacognitiva possiamo non solo conoscere ma anche in qualche modo agire sui nostri stati mentali (ad esempio possiamo comprendere e influenzare i nostri meccanismi di apprendimento). Con il termine “teoria della mente”, invece, si intende la sofisticata abilità umana di riflettere non solo sui propri pensieri, ma anche su quelli delle altre persone, riuscendo a formulare delle ipotesi sul comportamento altrui. Questa abilità cognitiva è fondamentale per la nostra vita e la usiamo tutti i giorni anche senza accorgercene. Ancora una volta, entrando in quell’universo che è il gioco dei bambini, ci meravigliamo di quanto siano complesse le attività in essere dentro i comportamenti infantili, attività a cui, con leggerezza, noi adulti rischiamo di non dare importanza.

Come favorire lo sviluppo del gioco simbolico


1.     Create per il vostro bimbo una grande casetta dei travestimenti da mettere nella sua cameretta, con dentro vecchi vestiti, cappelli, borse, guanti, sciarpe, camicie da notte, pezzi di stoffa che non si usano più. Sarà libero di giocare a travestirsi come meglio crede, viaggiando con la fantasia. Se possibile ponete nella stanza del bimbo anche uno specchio alla sua altezza, in modo tale che egli possa vedersi quando si maschera
2.     Fate attenzione a non banalizzare il gioco simbolico proponendo esclusivamente la cucina con pentole per le bimbe e il banchetto degli attrezzi per i maschietti. Per una scelta creativa e libera dagli stereotipi è utile mettere a disposizione del bambino una serie di materiali e oggetti poco strutturati (ad esempio scatole di cartone, costruzioni, cuscini, e così via) in modo che egli possa scegliere da sé quale situazione ricreare nei suoi giochi. Vedrete che saprà organizzarsi benissimo aggiungendo a questi materiali semplici altri oggetti trovati in casa, ripensandone la funzione con idee strepitose
3.     Limitate l’utilizzo di quei giocattoli elettronici che “fanno tutto da soli” e sono difficilmente riutilizzabili dal bambino per scopi di fantasia
4.     Raccontate, leggete e inventate storie con i vostri bambini
5.     Favorire lo sviluppo del gioco simbolico non significa sostituire o confondere queste attività di finzione con quelle di “vita pratica”(apparecchiare, sparecchiare, tagliare, lavare, vestirsi secondo gli insegnamenti montessoriani) che sono altrettanto importanti nella crescita del bambino e in cui è fondamentale utilizzare utensili veri e non giocattoli per imparare. È importante aver sempre chiaro lo scopo di ogni attività proposta al bambino, egli saprà distinguere la realtà dalla finzione.

Autrice: Chiara Borgia, pedagogista
Fonte: www.uppa.it

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