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mercoledì 21 giugno 2017

Quello che vi siete persi

QUELLO CHE VI SIETE PERSI...
...il blog va in vacanza

E' giunto il momento di sospendere l’attività del blog, che ripartirà a settembre a pieno regime. Per chi volesse recuperare i contenuti pubblicati in questa prima metà dell’anno basterà cercare nell'archivio blog o tra i post più popolari (li trovate sul lato destro della home).

Alcuni consigli:

Adolescenti attratti dai giochi violenti e della morte;

Lettera di un adolescente ai suoi genitori;

Un kit pedagogico per le neomamme;

Insegnare ai bambini l'ABC delle emozioni;

Lettera ad un figlio;

Lettera di una mamma ai bulli che perseguitavano il figlio;

Alike, il cortometraggio che ogni genitore dovrebbe vedere;

L'importanza di trovare dei motivatori

Buona lettura e buone vacanze.


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mercoledì 14 giugno 2017

In Danimarca si va a lezione di empatia

IN DANIMARCA SI VA A LEZIONE DI EMPATIA
A lezione di empatia. Questo succede nelle scuole danesi: in Italia la situazione è diversa, ma non mancano esempi virtuosi. Ne abbiamo parlato con il dottor Mario Di Pietro, esperto di Educazione razionale emotiva.

Nelle scuole in Danimarca, oltre alla matematica e alle altre materie tradizionali, i bambini vanno anche a lezione di empatia. Ogni settimana gli studenti dai sei ai sedici anni hanno a disposizione la Klassens tid, ovvero un momento in cui tutti possono condividere emozioni, problemi personali o difficoltà per ascoltare consigli e trovare soluzioni con l’aiuto dei compagni e dell’insegnante.
Il tutto è reso ancora più piacevole dalla Klassens time kage, una torta al cioccolato che i ragazzi preparano e portano in classe a turno. L’obiettivo? Creare un’atmosfera piacevole, chiamata “hygge”, e aiutare i giovani a far crescere la propria empatia – dal greco en pathos, “sentire dentro” – e quindi la loro capacità di percepire e condividere le emozioni altrui in un clima di collaborazione, con tutti i benefici che ne conseguono.
Il valore di questo approccio non è solo intuibile ma è addirittura dimostrato. Ad esempio, un notevole calo del livello di empatia tra i giovani statunitensi di oggi rispetto a quelli degli anni Ottanta-Novanta è stato registrato da uno studio dell’Università del Michigan e questo è coinciso con un aumento dei problemi di salute mentale e depressione degli stessi.
Per capire come la scuola italiana prenda in considerazione questa tematica ne abbiamo parlato con il dottor Mario Di Pietro. Psicologo e psicoterapeuta, negli anni Novanta portò in Italia l’Educazione razionale emotiva, procedura psicoeducativa che “educa la mente per metterla al servizio del cuore” e aiuta ad acquisire consapevolezza delle proprie emozioni, superando, in modo costruttivo, pensieri negativi che alimentano emozioni dannose.
Da molti anni il dottor Di Pietro si adopera proprio in ambito scolastico affinché questa procedura possa essere applicata anche alla didattica con diversi obiettivi, tra cui: favorire l’accettazione di se stessi e degli altri; facilitare il superamento di stati d’animo spiacevoli; aumentare la tolleranza alla frustrazione; favorire l’acquisizione di abilità di autoregolazione del comportamento; incentivare la cooperazione in alternativa alla competizione.
Oltre a essere psicologo, psicoterapeuta e docente il dottor Di Pietro è ancheterapeuta cognitivo-comportamentale. Specializzatosi a New York con Albert Ellis (fondatore della terapia razionale emotiva comportamentale) è autore di diversi testi, tra cui L’Educazione razionale emotiva e L’Abc delle mie emozioni.
Sappiamo che nelle scuole danesi l’empatia e le emozioni sono materia scolastica. In Italia esiste qualcosa del genere?
Sì, anche in Italia esistono sperimentazioni di questo genere ma non così su vasta scala come in Danimarca. Da noi si tratta più che altro di realtà isolate e legate alla lungimiranza dei dirigenti scolastici. Io negli anni ho seguito e ispirato vari progetti nelle scuole. Anche l’Istituto superiore di Sanità se n’era interessato e aveva finanziato una ricerca su questo.
Ci può dare una misura della diffusione di questi progetti in Italia?
Io formo circa cinquecento insegnanti l’anno sulle tematiche dell’Educazione razionale emotiva. Di recente sono andato anche in Abruzzo, dove hanno avuto problemi di resilienza coi bambini e, attualmente, sto seguendo un progetto a Pordenone legato a una rete internazionale sponsorizzata anche dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Come mai in Danimarca la situazione è così differente dalla nostra?
In Danimarca c’è un retroterra culturale diverso, molto ricettivo. Da loro non c’è un clima politico e culturale così caotico e selvaggio come da noi e hanno molto più senso civico. Perciò lì c’è terreno fertile per certe cose. Qui da noi, specialmente in certi contesti, per esempio al Sud, esistono problematiche sociali ben più impellenti da risolvere. Questo è un lusso che si possono permettere solo società più evolute.
Gli insegnanti come applicano in classe le procedure dell’Educazione razionale emotiva?
Attraverso percorsi mirati o applicandola alle varie discipline. Per esempio l’insegnante di lettere può aiutare i ragazzi a espandere il loro vocabolario emotivo; l’insegnante di scienze può spiegare quali sono i segnali fisici che il nostro corpo ci trasmette quando proviamo certe emozioni; quello di studi sociali può parlare del controllo della rabbia nell’interazione. Ci sono varie possibilità di introdurre nell’ambito delle discipline curriculari argomenti che riguardano l’Educazione razionale emotiva, però alla base ci dovrebbe essere un percorso strutturato che richiede diverse settimane. Se poi si vogliono fare le cose in modo completo, il percorso andrebbe ripetuto per tre anni consecutivi, perché, come qualsiasi nuova competenza anche questa richiede una reiterazione per essere consolidata.
È davvero così importante imparare a essere empatici?
La mancanza di empatia deriva da una visione negativa della realtà. Chi non prova empatia ha delle modalità di pensiero distruttive nei confronti dell’altro, per questo è incapace di provare e sentire quello che l’altro può provare. Però, attenzione, identificarsi con l’altro non è sempre utile perché può togliere le energie per aiutarlo. All’empatia deve unirsi la compassione che significa proprio “soffrire con l’altro” per aiutarlo a superare la sofferenza stessa.
Tutti possono imparare a essere più empatici e compassionevoli?
I fattori in gioco sono sia temperamentali che ambientali. Certe persone hanno una maggiore predisposizione all’empatia e quindi faticano meno ad apprenderla e applicarla, chi è meno predisposto dovrà impegnarsi di più, ma tutti possono migliorare.
Fonte: lifegate.it
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mercoledì 7 giugno 2017

Genitori che urlano ai figli

GENITORI CHE URLANO AI FIGLI

Sarà capitato a tutti di perdere la pazienza e di rimproverare il proprio figlio urlando. Perché lo si fa, ci si potrebbe chiedere? Le risposte possono essere le più svariate: perché non ascolta, perché non obbedisce,perché non segue le regole, fa i capricci etc.
Se ci facciamo caso, tutte queste risposte hanno a che fare con il comportamento o con l’atteggiamento del bambino stesso; la causa delle urla dei genitori sta in lui, nel bambino!!
Ma dobbiamo chiederci, invece, “perché a questi comportamenti io reagisco urlando? Cosa di questi atteggiamenti di mio figlio mi tocca a tal punto da dover urlare?”. Ci rendiamo allora conto che la necessità di urlare non è “causata” dal comportamento del bambino, tutt’al più è scatenata da esso, ma cosa ci sta alla base?
Facciamo un passo indietro!
Se è vero che tutti questi comportamenti del bambino portano un genitore a perdere completamente la pazienza, non è altrettanto vero che rimproverare urlando possa risolvere il problema.
Quando un genitore urla questo ha sul bambino più effetti.
Innanzitutto un genitore che urla è un genitore che non riesce a padroneggiare la situazione, che ha perso il controllo e che quindi non si mostra più quel punto di riferimento fermo e deciso che il bambino si aspetta e di cui ha bisogno.
Inoltre, se qualcuno ci urla contro in qualche misura ci sta attaccando e quando ci sentiamo attaccati la prima cosa che facciamo è difenderci. Come ci si difende da qualcuno che urla? È semplice, basta non ascoltarlo, “staccare l’audio”; ciò rende quindi inutile e inefficace tutto ciò che viene detto mentre si urla. Se noi urliamo i nostri figli molto semplicemente non ci ascoltano!
Infine, urlare è una manifestazione di aggressività e ciò porta il bambino a pensare che il genitore non gli voglia più bene, porta al senso di colpa e all’umiliazione, tutti sentimenti che spesso producono una forte reazione di rabbia nei confronti dei genitori, creando poi un circolo vizioso.
Allora come fare per rimproverare senza urlare?
Di certo ci vuole una grande dose di autocontrollo e di pazienza, ma ci sono dei piccoli accorgimenti che possiamo trovare e mettere in atto.
Quando capita di urlare chiediamoci sempre perché in quel momento lo stiamo facendo? Qual è il comportamento o l’azione del bambino che ci sta facendo urlare? Ad esempio “ha preso i colori e ha scarabocchiato la parete”. A questo punto possiamo chiederci “In che modo questa cosa poteva essere evitata?”, si possono trovare più risposte a questa domanda: “potevo evitare che i colori fossero a portata di mano”, “potevo spiegargli che non si scrive sulle pareti”, “potevo prendere un cartellone, appenderlo alla parete e permettergli di scarabocchiare solo quella parte”, e così via…
Questo esercizio mentale ci aiuterà a pensare sempre di più a lungo termine, cercando di prevedere le possibili conseguenze di determinati comportamenti.
Ma ormai il danno è fatto! E adesso? Possiamo chiederci “A cosa mi serve urlargli contro? E soprattutto a chi serve?”, di certo non serve al bambino, non è urlando che si eviterà il ripresentarsi di quel comportamento, forse serve un po’ di più come sfogo per il genitore, ma è uno sfogo che non è senza conseguenze, così come abbiamo visto in precedenza.
Come fare allora? Non lo si rimprovera? Certo che lo si rimprovera ma facendogli comprendere il perché quella determinata azione non va fatta. Prima del rimprovero, però, c’è un’altra cosa da fare: chiedere al bambino cosa abbia fatto, se comprenda cosa sia accaduto, perché lo ha fatto!
Non sono domande inutili, che non servono a nulla, anzi! Sono domande fondamentali, perché la percezione che abbiamo noi adulti non è la stessa percezione che hanno i bambini. Dal punto di vista dell’adulto uno scarabocchio sul muro è un comportamento inaccettabile, è un dispetto, è qualcosa che sporca, ma noi non sappiamo se il bambino lo ha fatto pensando così di far vedere quanto sia bravo alla mamma, o perché gli piacciono i colori o perché è divertente.
Chiedete sempre al bambino di parlarvi di quel determinato comportamento, fate delle domande semplici, che egli possa comprendere ed ascoltate le risposte, la maggior parte delle volte rimarrete sorpresi perché non vi aspettavate quella risposta!
Solo dopo aver ascoltato le ragioni del gesto da parte del bambino potete spiegargli il perché non doveva farlo, quali sono le conseguenze di quell’azione e successivamente comunicare al bambino qual è il prezzo da pagare per quello che ha fatto!
Per ogni azione che si compie si paga un prezzo, ciò farà sì che il comportamento non si manifesterà più! È questo che fa estinguere il comportamento e non le urla!
Pensate a come un bimbo piccolo possa pagare un prezzo simbolico per quello che ha fatto, per esempio fatevi aiutare a pulire (anche se non ne è capace ancora, fate finta che lo stia facendo!), oppure per quel giorno non si potrà andare al parco, etc.
Naturalmente la “punizione” è simbolica, non bisogna arrivare a punizioni eccessive (salti la merenda, non ti faccio vedere più la tv, etc.), anche perché queste spesso vengono date nel momento della rabbia e successivamente non vengono messe in atto proprio perché sono esagerate! E purtroppo nulla di più sbagliato, perché perderete ogni autorevolezza e ogni credibilità agli occhi del vostro bambino. Una volta un bambino in seduta mi ha detto: “io non ho paura delle punizioni dei miei genitori perché tanto l’ho capito che mi minacciano soltanto ma poi non mi puniscono mai!”.
Ed ora torniamo alla domanda che ci siamo posti all’inizio. Quale parte di me così intima e forse anche inconsapevole il comportamento di mio figlio va a toccare al punto da farmi perdere il lume della ragione e farmi cominciare ad urlare?
A questa domanda non c’è una risposta univoca! Ogni genitore ha la sua storia! Ma è di certo un buon esercizio mentale da fare per cercare di conoscerci sempre un po’ di più e cercare di comprendere quanto di noi stessi sia implicato nel rapporto con i nostri figli!
Autrice: Dott.ssa Roberta La Barbera

Fonte: superkidsout.it

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