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giovedì 11 aprile 2024

Ogni bambino lascia un segno profondo nella nostra anima

 Rubrica: Danzanti col vento...storie e racconti di educatori appassionati

OGNI BAMBINO LASCIA UN SEGNO PROFONDO NELLA NOSTRA ANIMA

L’educatore è un viaggiatore che naviga nello spazio. Spesso vola con le comete, ma sa che un giorno dovrà fermarsi ed ammirare le comete che continuano il loro viaggio da sole. 

La verità è che questo lavoro ti scuote nel profondo. Ti disarma, ti sgretola... Ti ricompone. Ogni bambino/a, ragazzo/a lascia dei segni così profondi del proprio passaggio nell'anima di un educatore al punto che mi dico di essere un vecchio pianeta disperso nell'universo a libero contatto e bersaglio di centinaia di stelle cadenti e meteoriti. Ogni solco o cratere lasciati dal passaggio potente o potentemente delicato dagli impatti degli altri astri, che intaccano la mia atmosfera ed il mio modo di essere nel mondo, rendono il mio suolo unico, irripetibile e ricco... Ricco di anima, di storia, di narrazioni.

Ho cominciato, con questo lavoro, ad attribuire alla notte una visione totalmente altra del semplice calar del sole. Ho scoperto che il turno di notte fosse il mio preferito ma non sapevo spiegarmi bene perché...

Ieri sera però ogni cosa è diventata chiara e nitida: è di notte che si vedono meglio le stelle, di giorno si sa che sono lì, ma la luce le nasconde...

Di notte invece brillano, illuminano la mia consapevolezza di essere custode di un qualcosa di così immensamente prezioso.

Sono la custode, durante il mio turno, di stelle, di pianeti e di galassie che brillano di luce propria ma la cui vista è possibile solo se si possiede il giusto sguardo.

Avevo iniziato a guardare le stelle con insistenza durante i mesi bui della pandemia o forse solo in quel periodo avevo imparato a guardare il cielo. Qualcuno durante quelle notti paurose mi sedeva accanto e osservava quello spettacolo unico assieme a me. Una sera aveva poggiato la sua testa sulla mia spalla e quel momento aveva dato inizio al nostro nuovo viaggio.

Io vecchio pianeta o forse misero asteroide ho compreso di avere la facoltà di osservare il passaggio delle vite di astri in carne ed ossa, di prendermene cura per pochi istanti, per poi vederli andare via e volgersi a chissà quali cieli.

Al mattino prima di alzare la tapparella e mostrare al mondo la loro sonnacchiosa sembianza terrena grido: <<Buongiorno Astronauti!>>; a sera prima della carezza della buonanotte ci auguriamo <<Buon viaggio e sogni belli>> perché è così che vedo queste ragazze e questi ragazzi; viaggiatori di un mondo che spesso non merita la loro grandiosità...

La notte merita di diventare un viaggio spericolato fra pianeti e avventure degne della fantasia di un bambino e non delle brutture della vita che non merita.

Ieri una stella cadente mi è passata accanto ed ha lasciato un segno tangibile del suo prezioso passaggio.

Un nuovo cratere si è formato silenziosamente sul mio suolo, il tutto mentre leggevo queste righe... Ho sentito il potere del suo impatto sgretolare la superficie del mio mondo parola dopo parola.

Continuo a navigare per le immense oscurità dell'universo e mentre lo faccio appongo commossa, una nuova lezione al mio manuale:

<<L'educatore scruta il cielo alla ricerca di astri, pianeti e galassie sapendo che ad ogni osservazione del cielo la propria vita sarà un pezzetto più complessa di prima. Egli naviga per lo spazio e se è fortunato per un po' avrà la fortuna di volare assieme alle comete... Ma l'educatore è un viaggiatore e per tanto sa che prima o poi le comete proseguiranno il proprio cammino, lui o lei si fermerà alle loro spalle, consapevole di vederle prima o poi sparire all'orizzonte. Sono fortunati gli educatori... a loro spetta il compito di vegliare, testimoniare sui bagliori dell'universo e quei bagliori: sono le vite dei ragazzi.>>

<<Io sono Fortunata>> lo scrissi il giorno della mia laurea... E quanto avevo ragione a crederlo.

Dott.ssa Pittari Chiara

(Pedagogista, Educatrice presso la Casa Famiglia Murialdo)

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Cos’è la rubrica: Danzanti col vento...storie e racconti di educatori appassionati

Da un po’ di tempo la mente di noi educatori è talmente colma di pensieri e riflessioni che spesso straripa . Lo scrivere è diventato per noi salvataggio indelebile, la messa al sicuro dei momenti della vita che trascorriamo con in nostri ragazzi.

Noi educatori spesso la notte scriviamo pagine di una vita vissuta fra le mura condivise con degli sconosciuti che a tratti riescono a sentirsi parte di una casa, parte di una famiglia

mercoledì 28 febbraio 2024

Ma starò facendo la cosa giusta?

Rubrica: Danzanti col vento...storie e racconti di educatori appassionati 

MA STARO’ FACENDO LA COSA GIUSTA?

Un piccolo foglietto ha annullato in pochi istanti tutti i miei grigi ed umidi pensieri; leggendolo ho ricordato una storia, il come è iniziata, il suo svolgimento, le sue difficoltà; quelle parole colorate hanno inondando la mente e l'anima di cose e di ricordi belli. La paura di sbagliare certe volte insegna anche a cadere e forse ad aver voglia di rimettersi a correre e a saltare, e per fortuna oggi sono ancora qua.

Sono settimane o forse mesi che ormai non scrivo. Ultimamente ho attraversato quel momento della vita in cui ogni cosa è attraversata dall'incertezza; ogni giorno era un continuo di domande: stavo lavorando con la stessa passione di prima? Sono cambiata? Mi sono persa?

Ultimamente mi chiedevo se avessi compreso correttamente questo lavoro o se fosse il caso di ricalcolare e mettere in discussione ogni aspetto del mio modo di essere educatrice.

Oggi ho riletto le mie tesi di laurea, gli appunti di quando facevo tirocinio, le riflessioni di una me di tanto, tantissimo tempo fa... l'ho fatto perché temevo di non riconoscermi in quegli scritti, l'ho fatto perché temevo di essere diventata grande... troppo grande.

Questa sera sono venuta a lavoro piena di pensieri; mi capita sempre più spesso. Procedo nella vita come se fossi guidata da un navigatore immaginario che continuamente impone il ricalcolo di ogni parte di me. Ricalcolo quando parlo a scuola con i bambini dei progetti, ricalcolo quando a lavoro mi sento impreparata, ricalcolo quando sono delusa o amareggiata, ricalcolo quando mi accorgo che le cose potrebbero essere differenti o migliori. Questa sera, arrivata in comunità, ho guardato la finestra della stanza degli educatori come facevo i primi tempi per vedere se ne riconoscessi i colori, le ombre e i ricordi ma... niente; c'era solo una stupida immobile finestra.

Poi ho trovato queste lettere sparse per la casa, come accade ogni sera. Questa volta però sul tavolino c'era un qualcosa che mi ha lasciato disarmata: un piccolo foglietto che ha annullato in pochi istanti tutti i miei grigi ed umidi pensieri; leggendole ho ricordato una storia, il come è iniziata, il suo svolgimento, le sue difficoltà; ricordo che con questo inserimento non mi ero mai sentita più inadatta e spaesata... Eppure eccomi qua.

A distanza di anni osservo la meraviglia contenuta in questi fogli, in quei colori brillanti.

Quando ci fu questo inserimento mi sembrava di sbagliarle tutte; temevo di non riuscire a cogliere i momenti, i segnali, i modi.

Ricordo pianti, grida, ricordo quegli sguardi... Ricordo che ogni turno era pesante e demotivante.

Stasera ero in camera con questi fogli fra le mani ...gli occhi erano fissi, immobili come se stessero registrando il momento, alcune lacrime scendevano copiose sulle guance per poi disperdersi sulla maglietta.

Era da tanto, tantissimo tempo che non mi sentivo così tanto: me stessa.

Era da tanto che non sentivo quel calore in petto che potesse accarezzare i miei dubbi e le mie paure che scuotevano il mio mondo con oscuri terremoti di insicurezza; quelle parole colorate stavano inondando la mente e l'anima di cose e di ricordi belli: i primi biscotti, la prima nuotata, la prima torta, il primo film, il primo libro letto assieme, i vestiti nuovi per la cena di Natale, il primo lavoretto e la tovaglia sporca di pittura verde, la prima volta sdraiate per terra a guardare le stelle, la prima volta in cui si lasciarono sfiorare dalla mia mano, il primo abbraccio, il primo <<Ti voglio bene>>, la prima volta in cui ho sentito il buffo appellativo: <<Chiaranetta>>.

Ogni singolo momento è apparso vivido nella mia mente quasi fossi la spettatrice in un deserto cinema dei ricordi; a parte la nostra presenza, non vi era nessuno... c'eravamo solo noi.

Ed io, spettatrice felice, ero a casa finalmente, più vicina a me stessa di quanto non lo fossi stata negli ultimi mesi. Senza accorgermene le ho strette forte a me, grata di quel momento, grata di quelle parole, grata di tanta bellezza. Ho parlato pochissimo, ho ascoltato tanto, ho riempito i miei occhi di quei sorrisi, di quelle frasi buffe ed ora mi accorgo che i miei dubbi non sono scomparsi, sono solo laggiù in fondo dentro me, e credo che in fondo mi servano per mantenermi in allenamento costante per il cambiamento. La paura di sbagliare certe volte insegna anche a cadere e forse ad aver voglia di rimettersi a correre e a saltare.

Forse i dubbi aumentano perché aumentano le cose da imparare, o forse alle volte occorre capire che si rimane sé stessi anche quando si ha paura, anche quando si cresce e si cambia.

Una lettera, un disegno, una preziosa indicazione... Io, il mio essere educatrice, i respiri lenti di bimbe che riposano serene.

Quella finestra si, la riconosco e riconosco anche me stessa riflessa su quei vetri.

Quel riflesso lo devo a loro, alla loro capacità di mettere in bilico la mia essenza, alla loro capacità di scuotermi e di educarmi a danzare con il vento...

Bentrovata Chiaranetta. 

Dott.ssa Pittari Chiara

(Pedagogista, Educatrice presso la Casa Famiglia Murialdo)

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Da un po’ di tempo la mente di noi educatori è talmente colma di pensieri e riflessioni che spesso straripa . Lo scrivere è diventato per noi salvataggio indelebile, la messa al sicuro dei momenti della vita che trascorriamo con in nostri ragazzi.

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mercoledì 21 febbraio 2024

Una dolce domenica in Casa Famiglia

 Rubrica: Danzanti col vento...storie e racconti di educatori appassionati 

UNA DOLCE DOMENICA IN CASA FAMIGLIA

La domenica è un giorno in cui il tempo scorre lento, ci si può dedicare alla cucina, al gioco, alla fantasia che ci fa viaggiare tra galassie e pianeti lontani. La casa profuma delle risate delle bimbe, del profumo delle cose belle.

Durante la settimana i turni sono sempre veloci: ci sono i compiti, gli impegni della scuola, lo sport, e tutte gli impegni speciali tipici dei ritmi di una comunità educativa.

Durante la settimana vi è sempre troppo poco tempo per dedicarsi alla lentezza; ecco perché adoro il turno della domenica in Casa Famiglia.

Il turno della domenica è un turno dolcemente lento. Ci si può dedicare alla cucina: si possono preparare cose buone e speciali prendendosi tutta la calma del mondo: la crema pasticcera si riposa lentamente dalla sua calda cottura, il sugo sobbolle lento mentre smuove le foglie di basilico che galleggiano pigre su quel mare rossastro. Il forno lascia che le zeppole si gonfino fino ad esplodere in tutta la loro vanitosa pienezza, gli gnocchi vengono a galla, prima uno, poi dieci, poi tutti. Il profumo del polpettone e delle patate si diffonde per la casa invogliando tutti ad accomodarsi per essere degustato.

La tovaglia viene scelta con attenzione: deve essere la più bella, la più colorata, la più idonea ad accogliere le dolci commensali che apparecchiano con estrema cura. La mozzarella si scioglie a contatto con gli gnocchi caldi diventando golosamente filamentosa.

Il pranzo inizia alle due o forse alla tre ma cosa importa? Il tempo accarezza lentamente il pomeriggio e si riempie di risate, tintinnii delle posate e dei bicchieri. I piatti si riempiono e si svuotano. Le guance si sporcano di sugo, poi di crema finché non si rilassano tronfie nel sorriso che solo la sazietà del dopo pranzo sa evidenziare.

La tavola si sgombera e lascia posto a colori di ogni tipo, cartoncini, forbicine e penne glitterate; manine si macchiano di giallo, di rosso, di verde e di blu. Picchiettano, spennellano, incollano, scrivono, evidenziano il dettaglio, realizzano meraviglie.

Un proiettore illumina una camera. Galassie e costellazioni appaiono in quello che una volta era un banale soffitto. Una coperta scozzese è adagiata a terra sulla quale quattro persone si godono la vista di quel viaggio immaginario nello spazio. Non saprei per quanto tempo abbiamo volteggiato nello spazio su quella coperta, forse alcuni minuti o forse anni e anni luce.

Nel frattempo c'è chi ha riacceso il forno e sta preparando le pizzette al pomodoro con l'impasto che lento lento è cresciuto nella sua ciotola per tutto il pomeriggio.

La porta dell'ingresso si muove scattando annunciando l'ingresso della collega per il cambio turno. Il mio turno sembrava iniziato da poco invece è già finito.

Al momento di chiudere la porta della casa famiglia alle mie spalle mi riempio le narici e le orecchie di quei profumi e di quei suoni; durante la settimana c'è sempre troppo poco tempo per fare tutto. Riempio la mia anima della lentezza della domenica ed ora posso andare via.

La casa profuma delle risate delle bimbe, del profumo delle cose belle.

Il mio turno è già finito.

Ci vediamo al prossimo.

Dott.ssa Pittari Chiara

(Pedagogista, Educatrice presso la Casa Famiglia Murialdo)

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mercoledì 14 febbraio 2024

Meglio felici che famosi

MEGLIO FELICI CHE FAMOSI

I genitori devono anche insegnare ai loro figli a gustare la gioia di vivere. Ma che cosa rende veramente felice un bambino?

I genitori dovrebbero insegnare ai loro figli a gustare la gioia di vivere. Ma che cosa rende veramente felice un bambino?

Se ci fosse una risposta a questa grande domanda, se potessimo conoscere la ricetta, che sollievo per i genitori! Come possiamo sapere se non stiamo sbagliando obiettivi e mezzi? Forse tornando all’essenziale, solo all’essenziale. Un bambino non può essere felice nel suo presente e nel suo futuro, se non si sente amato con un amore assoluto e incondizionato. Non perché sia bello, intelligente, affettuoso, gratificante, ma perché è lui.

I genitori possono anche insegnare ai loro figli a gustare la gioia di vivere. Amare la vita significa prestare attenzione positiva e gioiosa a ciò che facciamo, a ciò che vediamo, a ciò che sentiamo, a ciò che desideriamo; significa gioire del bello e del buono prima di lamentarsi del triste, del meno buono o del brutto. Significa credere che l’oggi è pieno di piccole e grandi meraviglie e che lo sarà anche il domani, perché la vita dà a chi cerca. Se questo non è uno dei segreti della felicità, è vicino. Nutrito da questi viatici, come potrebbe un bambino essere veramente infelice?

Il segreto

Alcuni anni fa un’indagine, che ha coinvolto migliaia di madri con almeno un figlio tra i 6 ed i 14 anni, ha dato risultati sorprendenti.

Il 72% delle mamme sogna un figlio calciatore; il 49% lo desidera attore; il 44% presentatore televisivo; il 35% imprenditore.

Queste le risposte per i figli maschi. Per le bambine le cose non cambiano: il 64% delle mamme le vuole cantanti, il 56% presentatrici televisive; il 43% ballerine; il 39% attrici/modelle; il 22% buone madri e buone mogli.

Insomma, le mamme desiderano figli emergenti, di successo. Figli famosi. Che dire?

Il genitore controcorrente ha buon gioco a rispondere. Il figlio che ha una madre ed un padre con attese tanto alte, infatti, è destinato al 90% alla tristezza. Sì, perché, quasi sicuramente, si sentirà in colpa per non essere in grado di realizzare i sogni dei genitori; quasi sicuramente sprecherà il tempo più bello della vita ad inseguire mete impossibili.

Ma vi è un’altra ragione, ben più profonda, che porta a dare ragione al genitore controcorrente. Non tutti gli uomini nascono per diventare famosi, tutti nascono per essere felici!

Il bisogno di gioia è scritto nel nostro patrimonio cromosomico genetico.

Ecco perché la pedagogista Elisabetta Fiorentini non ha dubbi: “Per un bambino, la gioia è importante come il pane e il companatico. Se non di più». Dunque la gioia del bambino non è da prendersi sottogamba!

Lo psicopedagogista Franco Frabboni è tassativo: “Se un bambino non ride, bisogna preoccuparsene!”. Parole vere e severe che hanno forti ricadute operative che il genitore controcorrente pratica in questo modo:

non obbliga il figlio a dimostrare d’essere un genio;

non lo costringe a fare l’adulto in anticipo;

si ricorda d’essere stato bambino pure lui;

non lo tiene inscatolato in casa come le statuine del presepio; 

lo sveglia con un bacio, non accendendo la televisione; 

lo coccola;

gli dà più calore che calorie;

ha sempre in mente il saggio proverbio africano: “Quando due elefanti si combattono, chi ci rimette è l’erba del prato”.

Magnifico programma, impegnativo, ma anche esaltante: far felice un bambino, nobilita l’uomo.

La domenica mattina

Da bambina ero felice ogni giorno di scuola, quando tornavo a casa e mia madre mi vedeva sulla soglia e interrompeva all’istante tutte le attività domestiche, si puliva le mani, si toglieva il grembiule, si rimetteva una ciocca di capelli vagante nell’orecchio e diventava madre. “Sono sicura che stai morendo di fame”, diceva, e questo le dava il via libera per prepararmi uno spuntino, un lungo panino imburrato e una tavoletta di cioccolato. Si sedeva accanto a me, guardandomi divorare, e quando una briciola di pane si attaccava al bordo delle mie labbra, faceva un gesto per rimuoverla sulla sua stessa bocca! Ciò che rende felice un bambino è giocare a nascondino e trovare il nascondiglio giusto, il sottile brivido tra il piacere di sfuggire a chi cerca e il desiderio di essere scoperto.

«Sono i giochi della domenica mattina, quegli abbracci sinceri, le risate e i pianti che vengono portati via, la sensazione potente di essere in una vera famiglia dove non può accadere nulla di brutto o doloroso. Gli stessi gesti, le stesse grida, lo stesso stupore deliziato e la voce languida del bambino che si ferma: “Fermati, papà, fermati ancora, ancora!” Mi stupisco sempre quando vedo e sento la gioia di un bambino al ricordo di un momento felice o imprevedibile con uno dei due genitori» scrive il professor Jacques Salomé. «Per esempio, una delle mie nipoti, Emeline, di sei anni, mi ha raccontato, ridendo di gusto, la reazione di suo padre a uno dei suoi scherzi. “Una domenica mattina, papà era ancora a letto, mezzo addormentato, gli sono saltata addosso, so che gli piace, e gli ho chiesto (con voce molto dolce): “Vuoi che ti lavi i denti? Suo padre, ancora insonnolito, acconsentì con un sussurro. Poi, dopo qualche secondo, in un lampo di lucidità, chiede alla figlia: “Dove hai trovato lo spazzolino? – Nel bidone della spazzatura dei vicini! Poi papà si è svegliato all’improvviso e ha detto “Uh, che schifo!” Aprì completamente gli occhi e mi chiese: “E l’acqua, dove l’hai trovata? – Sono troppo piccola, non potevo aprire il lavandino e quindi l’ho presa dal water!” Poi nonno, avresti dovuto vedere papà, si è alzato, saltando verso il soffitto, ridendo “Non è vero, non è vero! Non avrei mai dovuto mettere al mondo una ragazza così intraprendente!” Ed Emeline conclude, ridendo tra le braccia del padre: “Papà dice sempre che bisogna accontentarsi di quello che si ha!”

La felicità di un bambino è legata alla stabilità emotiva dei genitori e all’affidabilità e coerenza delle loro risposte. Quando, ad esempio, non si parla di lui, ma a lui! Quando non facciamo per lui, ma con lui! Quando si hanno desideri verso di lui, e non su di lui!».

Autore: Pino Pellegrino

Fonte: www.biesseonline.sdb.org

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mercoledì 24 gennaio 2024

Paura della scuola

 PAURA DELLA SCUOLA: 

COS’E’ E COME SI PRESENTA

Quando finii la scuola media, davanti a me avevo un'estate diversa: l'estate prima delle scuole superiori. Provai una certa ansia dovuta a quanto ci ripetevano costantemente, in parte, gli insegnati della scuola media e, in parte, i miei genitori. Non solo. Quest'ansia era sostenuta anche dalle mie "fantasie" di preadolescente a cui poi sommavo quelle degli altri miei amici. 

‘’Quando poi cominciai la scuola superiore non ricordo esattamente come andò, ma ricordo che a dicembre ero già ambientato e impegnato non solo con le attività scolastiche ma anche quelle extra-scolastiche che mi entusiasmavano tantissimo.’’

Eppure non sempre un percorso scolastico è così lineare e sereno per lo studente, i suoi genitori e gli insegnanti. Molte volte infatti la scuola può essere vissuta con un generale senso di noia, con una sensazione di ansia paralizzante la persona, con un senso di paura, disistima, vergogna e disprezzo.

A tal fine è tuttavia necessario sottolineare la profonda differenza che corre tra chi non va a scuola e chi teme la scuola. Chi tende a "marinare" la scuola non prova il disagio avvertito dai secondi, non sembra aver investito sulla scuola, sui compagni, sulla rete che gli è attorno. Questi potrebbe girovagare nella città per opposizione ai genitori, per ragioni che non sempre sono dovute a lacune o ritardi nella scolarizzazione. Egli potrebbe sviluppare delle tendenze antisociali in virtù di una mancata, più o meno, disciplina all'interno della famiglia.

Ciò che invece succede ai ragazzi che temono la scuola è ben diverso, facente parte di un fenomeno che solo apparentemente parrebbe "di moda" ma che descrive primariamente il nostro sistema scolastico (guidato sempre più da valori improntati al solo sviluppo delle competenze e della competizione) e la nostra società, le cui famiglie prestano una maggiore attenzione al rendimento scolastico non immaginando che questo è mediato sempre e comunque dalla sfera affettiva: lo stato di benessere/malessere con cui mi appresto ad apprendere.

Per tali ragioni gli esperti parlano di fobia scolastica che rientra tra le tante cause che porterebbero all'abbandono scolastico e che si presenta sotto due forme: durate la scuola primaria (nell'infanzia) o nel corso della scuola di primo e sopratutto secondo grado (nella pubertà e nell'adolescenza) 

Fobia scolastica e infanzia

Per quanto riguarda la prima forma di fobia scolastica essa è meno grave della seconda ed interessa soprattutto i bambini.

Si manifesta sotto forma (a) d'ansia e malesseri fisici al momento del distacco da casa e per mezzo di (b) pensieri e fantasie catastrofiche che riguardano loro e i genitori: temono di essere abbandonati, che i genitori muoiano o che non siano presenti al loro ritorno a casa.

Questi bambini sembrano sentirsi tranquilli solo quando sono a casa, facendo così pensare ad alcune difficoltà relazionali e di separazione che appartengono dapprima ai loro genitori: una parte di loro vorrebbe avere vicino il figlio il quale però, avvertendo queste difficoltà e preoccupazioni, risponde assecondandole, vivendole sulla sua pelle.

Fobia scolastica e adolescenza

Molto più complessa è tuttavia la comparsa della fobia scolastica negli adolescenti, la quale non è più studiata e compresa in concordanza alle sole difficoltà di separazione ma come conseguenza di un ventaglio di cause molto più ampio sul cui sfondo vi è anzitutto il cambio da uno stile di scuola più "materno" a un altro che richiede una maggiore autonomia, responsabilità e comporta la capacità di interrompere i legami con l'ambiente per sedersi su una scrivania, aprire il quaderno e svolgere i compiti; scelte e comportamenti che sottendono che l'adolescente sia in grado di dire "no" alle "seduzioni del mondo": alla televisione, allo schermo del pc e del cellulare, agli amici, alle richieste dei corpo, alla famiglia. Come ricorda il pediatra e psicoanalista Winnicott, egli deve essere capace di interessarsi a ciò che non lo riguarda per niente.

A ciò poi s'accompagna l'affermarsi di un corpo sessuato che mette ancor più in difficoltà gli adolescenti poiché le sensazioni che esso genera spingono a nuove scoperte, nuovi interessi, nuovi bisogni che potrebbero spaventare, essere visti come i responsabili di una serie di conflitti che fanno dimenticare la precedente pacifica armonia interna.

Se nell'età infantile la crescita avviene prevalentemente all'interno della famiglia e la scuola esiste come struttura parallela, nell'adolescenza essa diviene centrale, il primo nucleo dei legami e di sviluppo, il luogo in cui l'adolescente:


·       deve affrontare di "sfilare sulla passerella della scuola" ed esporsi allo sguardo e ai giudizi negativi o positivi dei coetanei: dal taglio di capelli alle scarpe, dallo zaino agli occhiali da sole, dal modello di cellulare a quello della band ascoltata ecc.;

·       deve affrontare il giudizio di un team di adulti che di mestiere fa proprio quello di valutare gli adolescenti; stimare se han compreso le "cose strane" che sono successe nel pianeta dall'antichità ai giorni nostri.

Per questi motivi, la mole di lavoro che spetta loro durante questo periodo di vita non permette più di focalizzarsi per imparare solo dai libri ma anche da questa serie di cose, non meno semplici, trasversali e ugualmente importanti: nessun adulto, arrivando in ufficio, è esposto a cosi tanti rischi, novità e insicurezze.

Adolescenza e Web

Per queste stesse ragioni allora essa può spaventare, può diventare sempre più faticosa, frustrante e opprimente, tanto da generare inizialmente la vergogna di sentirsi esposti agli occhi degli altri come fallimentari e disprezzabili e poi la cosiddetta fobia e paura scolastica.

Questa frattura, nei casi più drammatici, porta a diverse conseguenze e diverse tipologie di quadri clinici. Tra questi vi è il ritiro dal mondo reale al quale segue, oramai sempre più spesso, un ritiro nel mondo virtuale in cui c'è:

 

·       un movimento compensatorio come conseguenza alle tante amarezze per il fallimento scolastico, l'isolamento e la perdita del gruppo di coetanei;

·       la prevedibilità dei gesti, la controllabilità degli oggetti;

·       la mancanza di complessità e contraddittorietà tipica delle relazioni reali;

Ciò che allora si rende necessario è che l'adolescente trovi uno spazio per poter condividere con un esperto cosa gli sta succedendo fisicamente, affettivamente, socialmente e cognitivamente; uno spazio in cui non si pretenda che la guarigione costituisca il ritorno a scuola ma che gli dia delle motivazioni rispetto a ciò che è accaduto, ciò che ha interrotto il suo sviluppo, così da poter decidere più coscientemente come comportarsi.

Fonte: www.guidapsicologi.it

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giovedì 11 gennaio 2024

non riusciamo più a guardarci negli occhi

 NON RIUSCIAMO PIU' A GUARDARCI NEGLI OCCHI

Uno dei segni della fretta che condiziona le persone del nostro tempo è l'incapacità crescente di comunicare con gli occhi. I contatti tra le persone si sono moltiplicati: internet, e-mail, telefonino... E ci stiamo dimenticando del contatto più semplice: il contatto visivo.

In famiglia, scompaiono le occasioni che consentivano alle persone di “guardarsi”. Una statistica afferma che il tempo medio che un genitore trascorre con un figlio adolescente è attualmente stimabile in 12 minuti al giorno. Anche il pasto della sera non viene più consumato insieme, per le troppe attività in cui ciascuno è impegnato e i diversi gusti televisivi. Dei 12 minuti, almeno 10 vengono impiegati per dare istruzioni o verificare l'esecuzione di quelle impartite il giorno precedente, gli altri minuti si esauriscono in questioni poco significative.

È così che diventa realmente possibile la preghiera ormai classica: «Signore, fammi diventare un televisore, così la mia mamma e il mio papà mi guarderanno un po' di più».

Il contatto visivo è guardare direttamente una persona negli occhi. La maggioranza della gente non capisce quanto questo contatto sia vitale. Quasi tutti però conoscono il disagio di una conversazione con qualcuno che guarda costantemente altrove e che è incapace di guardare in faccia l'interlocutore.

Le persone hanno bisogno di essere guardate. A che cosa servono le tante cure al vestito, al look, al corpo se non per attirare l'attenzione e lo sguardo degli altri? Anche il piercing, i tatuaggi e le spesso sconcertanti originalità degli adolescenti sono l'inquietante invocazione: «Guardatemi!».

Il contatto visivo è essenziale non solo per comunicare con i bambini ma per soddisfare i loro bisogni emotivi. Il bambino utilizza il contatto visivo con i genitori per nutrirsi emotivamente. Con gli occhi si comunica amore. Lo sanno bene gli innamorati. Tutti sentono la profonda emotività della frase «Mangiarsi con gli occhi». Anche l'evangelista Marco nell'episodio dell'incontro tra Gesù e il giovane ricco, afferma: «Gesù, fissatolo, lo amò...».

Lo sguardo dei genitori significa amore, attenzione reale, apprezzamento e interesse. Gli occhi dei genitori sono una fonte di valore e una forma di nutrimento morale ed emotivo. Un figlio moltiplica il proprio impegno se si sente guardato dai genitori. Purtroppo molti genitori sono occupati a far tante cose per i propri figli e poi si dimenticano di “guardarli”.

Ormai è provato: lo sguardo caldo e incoraggiante dell'insegnante aumenta l'impegno dell'alunno, lo aiuta a capire meglio ciò che gli viene detto. Così pure è certo che i bambini memorizzano meglio le fiabe raccontate guardandoli negli occhi.

Insomma, la mancanza del contatto visivo è un danno umano di non poco conto e non utilizzarlo sarebbe da irresponsabili. Anche perché esiste il pericolo della sua scomparsa (o quasi) a causa della inarrestabile e sempre più invadente comunicazione digitale! L'insidia è davvero alta. Il cellulare, il tablet, lo smartphone connettono, ma non mettono in relazione.

• I “connessi” non sentono la vibrazione dello stare vicino l'uno all'altro, del guardarsi, dello sfiorarsi.

• Si è scoperto che i ragazzi che chattano molto non arrossiscono più ed hanno difficoltà a fissarsi negli occhi. Questa è povertà umana!

• Nei campi di concentramento tedeschi era severamente proibito ai prigionieri guardare negli occhi le guardie di sorveglianza, per timore che queste avrebbero potuto intenerirsi ed essere meno dure.

I contatti sbagliati

Fin qui tutto pare correre liscio. In realtà non è così. Non tutti i contatti visivi, infatti, hanno valenza umanizzante.

Vi sono contatti sbagliati che danneggiano la nostra crescita umana ed altri che la favoriscono.

• Quello dell'occhio poliziesco dei genitori che controllano ogni mossa del figlio, lo pedinano tutto il giorno, gli soffiano continuamente sul collo, gli razionano i metri di libertà. L'occhio poliziesco non è fattore di crescita: potrà fare un disciplinato, ma non un educato. “Mai la catena ha fatto buon cane”, recita l'indovinato proverbio.

• Un secondo tipo di contatto visivo sbagliato è quello dell'occhio minaccioso, fulminante. “Guardami negli occhi!”, urlano alcuni genitori che si dimenticano che la paura non ha mai innalzato alcuno, ma ha sempre solo formato nani.

• Terzo tipo di contatto visivo sbagliato (il peggiore tra tutti!) è quello dell'occhio indifferente. L'indifferenza è sempre insopportabile: ti gela l'anima, ti fa perdere la voglia d'essere al mondo. L'indifferenza è la sorella gemella della crudeltà!

I contatti buoni

Passiamo ai contatti buoni.

• Contatto buono è quello dell'occhio generoso che vede ciò che nessuno vede.

Un tale si era innamorato della celebre cantante e ballerina Elena Sontag che vedeva stupenda.

Un giorno un amico gli disse: “Ma non hai notato che la signorina ha un occhio più piccolo dell'altro?”.

“Macché - ribatté il convinto ammiratore - “ha un occhio più grande dell'altro!”.

A questi livelli di generosità (di umanità) possono arrivare gli occhi generosi, i più apprezzati dai pedagogisti che sono d'accordo con la magnifica intuizione dello scrittore francese François Mauriac: “Amare qualcuno significa essere l'unico a vedere un miracolo che per tutti è invisibile”.

• Buono è il contatto visivo incoraggiante che dà la spinta e fa volare alto.

• Buono è il contatto visivo accogliente che ti avvolge come un manto ripieno d'amore e di empatia. Un contatto visivo con tali caratteri ha più valenza umanizzante di tutti i milioni di contatti digitali del mondo messi insieme

Autore: Pino Pellegrino

Fonte: www.biesseonline.sdb.org

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lunedì 18 dicembre 2023

Lettera di un adolescente ai genitori

LETTERA DI UN ADOLESCENTE AI GENITORI

Perché la vita con gli adolescenti sembra sempre un estenuante tiro alla fune? Possibile che i genitori siano sempre sbagliati ai loro occhi? Questa lettera è stata scritta da Gretchen L Schmelzer, una psicologa e scrittrice statunitense, e dovrebbe essere inserita tra le letture obbligatorie del manuale del genitore dell’adolescente.

Caro Genitore,

Questa è la lettera che vorrei poterti scrivere.

Questo conflitto in cui siamo, ora. Ne ho bisogno. Ho bisogno di questa lotta. Non te lo posso dire perché non ho il lessico per farlo e comunque non avrebbe senso quello che direi. Ma ho bisogno di questa lotta. Disperatamente. Ho bisogno di odiarti ora, e ho bisogno che tu sopravviva a questo odio. Ho bisogno che tu sopravviva al mio odiare te, e al tuo odiare me. Ho bisogno di questo conflitto anche se pure io lo detesto. Non importa neanche su cosa stiamo litigando: l’ora di rientro a casa, i compiti, i panni sporchi, la mia stanza incasinata, uscire, restare a casa, andare via di casa, vivere in famiglia, ragazzo, ragazza, non avere amici, avere cattivi amici. Non importa. Ho bisogno di lottare con te su queste cose e ho bisogno che tu lo faccia con me.

Ho disperatamente bisogno che tu mantenga l’altro capo della corda. Che ti ci aggrappi forte mentre io strattono il capo dalla mia parte, mentre cerco di trovare appigli per vivere questo mondo nuovo cui sento di affacciarmi. Prima sapevo chi fossi io, chi fossi tu, chi fossimo noi. Ma ora, non lo so più. In questo momento sto cercando i miei confini, e a volte riesco a trovarli solo quando tiro questa fune. Quando spingo tutto quello che conoscevo al suo limite. Allora io mi sento di esistere, e per un minuto riesco a respirare. E lo so che ti manca tantissimo il bambino dolce che ero. Lo so, perché manca anche a me quel bambino, e a volte questa nostalgia è quello che rende tutto doloroso per me al momento.

Ho bisogno di questa lotta e ho bisogno di vedere che, non importa quanto tremendi o esagerati i miei sentimenti siano, non distruggeranno me, né te. Ho bisogno che tu mi ami anche quando sono pessimo, anche quando sembra che io non ti ami. Ho bisogno che tu ami te stesso, e me, che tu ci ami entrambi e per conto di tutti e due. Lo so che fa male essere antipatici, avere etichette di quello marcio. Anche io provo la stessa cosa dentro, ma ho bisogno che tu lo tolleri, e che ti faccia aiutare da altri adulti per farlo. Perché io non posso in questo momento. Se vuoi stare insieme ai tuoi amici adulti e fare un “gruppo-di-mutuo-supporto-per-sopravvivere-al-tuo-adolescente”, fa’ pure. O parlare di me alle mie spalle, non ho problemi. Basta che non rinunci a me, che non rinunci a questo conflitto. Ne ho bisogno.

Questo è il conflitto che mi insegnerà che la mia ombra non è più grande della mia luce. Questo è il conflitto che mi insegnerà che i sentimenti negativi non significano la fine di una relazione. Questo è il conflitto che mi insegnerà come ascoltare me stesso, anche quando sono una delusione per gli altri.

E questo conflitto particolare, finirà. Come ogni tempesta, sarà spazzata via. E io dimenticherò, e tu dimenticherai. E poi tornerà da capo. E io avrò bisogno che tu regga la corda di nuovo. Di nuovo e di nuovo, per anni.

Lo so che non c’è nulla di intrinsecamente soddisfacente in questa situazione per te. Lo so che probabilmente non ti ringrazierò mai per questo, o neanche te ne darò credito. Anzi probabilmente ti criticherò per tutto questo duro lavoro. Sembrerà che niente che tu faccia sia mai abbastanza. Eppure, io faccio affidamento interamente sulla tua capacità di restare in questo conflitto. Non importa quanto io polemizzi, non importa quanto io mi lamenti. Non importa quanto mi chiuda in silenzio.

Per favore, resta dall’altro capo della fune. E lo so che stai facendo il lavoro più importante che qualcuno possa mai fare per me in questo momento.

Con amore, il tuo teenager.


Fonte: genitori crescono.com

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