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mercoledì 26 aprile 2017

L'interrogativo è il cuore dell'intelligenza

L'INTERROGATIVO E' IL CUORE DELL'INTELLIGENZA

L'interrogativo è il cuore dell'intelligenza: fa scattare il cervello e lo tiene sotto pressione. La cosa è certa: una domanda al giorno e la stupidità è tolta di torno. Anche nell'arte di educare l'interrogativo ha un rilievo centrale. Il buon senso non basta, abbiamo bisogno di una pedagogia consapevole.

I bambini di oggi sono più intelligenti di quelli di ieri? 
È una voce che circola un po' ovunque: “I bambini di oggi sono più intelligenti di quelli di qualche tempo fa”. Sarà vero? Il fatto che quella sia la convinzione accettata dall'opinione pubblica non è prova di verità. È meglio ragionarci su. 

Ebbene, alla domanda se i bambini di oggi sono più intelligenti di quelli di ieri lo psicologo Jean Piaget dava una risposta sorprendente e decisa: «No, assolutamente no! I bambini di oggi non sono più intelligenti di quelli di cinquant'anni fa. Direi piuttosto il contrario. Hanno acquisito un po' di idee sbagliate. Il grande principio della pedagogia è che essa non debba mai fondarsi sulla parola o sugli apporti esterni, come la televisione. La vera rivoluzione si ha nel momento in cui il bambino può agire sugli oggetti, può fare delle esperienze che non sono quelle del maestro». 

In parole più chiare: il bambino si fa intelligente non quando vede o quando sente, ma quando agisce in prima persona. 
Alla stessa conclusione sono arrivati anche ultimamente gli psicologi giapponesi i quali hanno notato che i bambini di Tokyo che abitano negli ultimi piani dei grattacieli sono più maldestri e impacciati dei piccoli che abitano ai primi piani. Per quale ragione? 
Perché questi ultimi hanno più possibilità di sperimentare: scendere in cortile a giocare, correre, incontrare gli amici, andare in bicicletta. In una parola hanno più possibilità di vivere in diretta! 
Dunque, che dire? I bambini del duemila sono più intelligenti dei piccoli del secolo scorso? 
A questo punto possiamo rispondere con più cognizione di causa. 
I bambini di oggi hanno indubbiamente più abilità operative (sanno usare la calcolatrice, sanno impostare il navigatore satellitare, sanno smanettare sul cellulare), ma non è detto che siano più intelligenti di quelli di ieri.

Mancano di due condizioni per la fioritura dell'intelligenza: 
• Manca l'ambiente adatto. 
La società frenetica in cui vivono è la meno adatta all'attenzione, all'osservazione calma e profonda, indispensabile per l'intelligenza (intelligenza è parola che deriva dal latino intus-legere: andare nel profondo, vedere dentro). 
• Manca la seconda condizione base per la fioritura dell'intelligenza: quella della vita vissuta in prima persona.
Lo conferma la nostra psicologa Anna Oliverio Ferraris con questa seria osservazione: «In nessun'epoca il bambino è mai stato tanto tempo inattivo come oggi». 
D'accordo! Mai come oggi i bambini hanno visto vivere e mai così poco vivono in diretta. Bambini inscatolati, bambini messi in cassa integrazione fin dai primi anni di vita, non potranno che avere un'intelligenza spenta perché inutilizzata. 
Che ne dite?

Per non fare la fine della rana bollita 
La rana galleggia beata nella bacinella piena d'acqua. È così soddisfatta che non si accorge che il fornellino acceso di sotto riscalda a poco a poco l'acqua fino a portarla all'ebollizione. 
A questo punto la rana si sveglia dal suo pacifico torpore e cerca di uscire dalla bacinella. 
Prova a spiccare il salto, ma vi ricade. L'acqua così calda le ha tolto tutte le forze. 
Riprova il salto. Ancora una volta ricade nell'acqua. 
Ormai non le resta che rassegnarsi a morire bollita! 
La storia della rana può essere la nostra storia. 
Di anno in anno stiamo erodendo la nostra umanità. Quando prenderemo coscienza del nostro danno mortale, forse sarà troppo tardi. Insomma, per farla breve, non c'è alternativa: o 'bolliti' o 'pensanti'! I lettori del nostro bollettino sanno bene da che parte collocarsi. 
Per questo leggeranno i vari interventi mensili volti a rendere sempre più consapevole, vale a dire sempre più intelligente e viva, la loro arte di educare.

A LORO LA PAROLA 
• “In te mamma, ho una sola cosa da dirti: che gridi troppo”. (Monica, sei anni) 
• “Appena c'è il telegiornale papà si mette a gridare: 'Ladroni, codardi, banditi'”. (Walter, sette anni) 
• “Quando ti recito la lezione, mamma, i tuoi occhi sono sfavillanti, le tue guance si arrossano e si vedono i tuoi denti bianchi!”. (Lorenzo, nove anni) 
• “La prima cosa che mia mamma fa quando torno a casa da giocare è toccarmi il collo di dietro: controlla la sudata”. (Alessandro, dieci anni) 
• “La mia mamma è stata brava a sposare papà!”. (Martina, dieci anni). 
• “Quando in famiglia c'è un litigio tu mamma cerchi sempre di cambiare discorso per non farci bisticciare”. (Federico, nove anni)
Autore: Pino Pellegrino


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mercoledì 12 aprile 2017

L'importanza del gioco per i bambini

L'IMPORTANZA DEL GIOCO PER I BAMBINI

Il gioco è un momento fondamentale per lo sviluppo psicofisico del bambino. Qualche consiglio per i genitori che vogliono rendere il momento ludico positivo e formativo


Citare il rapporto tra bambini e gioco significa chiamare in causa un aspetto fondamentale per lo sviluppo psicofisico. Fin dai primi mesi di vita il gioco rappresenta un mezzo essenziale per il bambino che punta a conoscere il mondo e che lo fa appunto in maniera squisitamente ludica, anche solo giocando con i capelli della madre o di chi lo tiene abitualmente in braccio.

Compito del genitore in queste fasi è assecondare l’approccio ludico, cercando di condividere i piccoli momenti di gioco quotidiano. Un esempio tipico è quello del bambino a cui vengono proposti dei giochi sospesi sul lettino e che si diverte quando si trova davanti agli effetti visivi e sonori. In questi casi è consigliabile che il genitore assecondi le prime risate del bambino, rendendo il momento ludico positivo e formativo.

Man mano che passano gli anni cambia chiaramente il modo in cui il bambino gioca ed è necessario che i genitori imparino a gestire questa evoluzione.
Verso i 4/5 anni è nodale avviarlo al gioco autonomo, attraverso soluzioni pratiche che stimolino la sua creatività. Non è necessario mettere da parte i videogiochi, a patto che siano educativi, non violenti e che mettano in primo piano delle situazioni quotidiane positive, dei modelli utili ai quali ispirarsi.

In queste situazioni, durante le quali è necessario aiutare il bambino a sviluppare le capacità di simbolizzazione utili a capire la differenza tra gioco e realtà, il ruolo del genitore è di monitoraggio. Fondamentale è non perdere il controllo di quello che fa il bambino, ma è altrettanto importante non intervenire sempre quando lo si vede in difficoltà, in modo da aiutarlo a sviluppare autonomia e attitudine al problem solving.

In questa fase prescolare viene a galla un altro nodo essenziale per la crescita dei bambini e per il loro rapporto con il gioco. Di cosa si tratta? Della scelta delle attività extracurriculari, scelta che preoccupa molti genitori fin dall’ultimo anno della scuola dell’infanzia.

Tra i consigli che tendo a dare c’è il fatto di non esagerare, il bambino deve avere anche degli spazi di vuoto, di noia in certi casi, così da riuscire, tramite la propria fantasia e creatività, a trovare delle soluzioni per sopperire a questi momenti.

‘Giocare è un cosa seria’

Questa frase del grande Bruno Munari dovrebbe essere ricordata da tutti i genitori, perché riassume perfettamente il valore del gioco come veicolo formativo straordinario, il primo che consente al bimbo di conoscere il mondo e l’unicità del suo essere.

Autrice:Dott.ssa Miolì Chiung

Fonte: blog.marshmallow-games.com

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mercoledì 5 aprile 2017

Alle neomamme date un kit pedagogico, non le cremine: tante patologie sparirebbero

ALLE NEOMAMME DATE UN KIT PEDAGOGICO, NON LE CREMINE

In pochi anni c'è stato un vero e proprio boom di diagnosi di disturbi comportamentali e cognitivi per i bambini. Molti problemi nascono in realtà da scelte educative sbagliate e anche la cura dovrebbe ripartire proprio dal riscoprire i basilari educativi. Intervista con il pedagogista Daniele Novara

«I bravi bambini rompono sempre le scatole»: Daniele Novara, pedagogista e fondatore del Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, parte così per spiegare le ragioni del convegno nazionale che sta organizzando per il prossimo 8 aprile. Si intitola “Curare con l'educazione. Come evitare l'eccesso di medicalizzazione nella crescita emotiva e cognitiva” e si terrà a Milano. Contro la crescita esponenziale di diagnosi psichiatriche e certificazioni di disturbi di vario genere per bambini, Novara ribadisce che «i bambini devono poter fare i bambini, la realtà del loro mondo è fatta di pensiero magico, libertà, movimento, natura, stare con animali, scherzare, dire bugie… tutte cose che gli adulti non sopportano più. Ma il bambino è questo, è la diversità per antonomasia, è ontologicamente diverso dall’adulto e questa diversità non è solo il bello del bambino ma è ciò che gli consente di imparare e crescere. Se gli togliamo la diversità, il bambino non riuscirà più a imparare, il bambino impara perché è plastico, perché vede le cose in maniera diversa da noi». Ovvero non tutto ciò che “disturba” è patologico e non tutti i problemi che un bambino presenta devono essere tradotti e affrontati in chiave medica: molto potrebbe fare la pedagogia, cioè l’educazione. Solo che nessuno – né i genitori né gli insegnanti – di pedagogia sa più nulla, abbandonati a loro stessi, ai siti, ai blog, ai sentimenti.

Partiamo dall’inizio. È un fatto che negli ultimi anno ci sia un’impennata di diagnosi di disturbi specifici dell’apprendimento, ma come possiamo leggerlo e spiegarlo?
In una manciata di anni nella scuola sono triplicati i bambini con una diagnosi di DSA (disturbi specifici dell’apprendimento), raddoppiati quelli con una certificazione di disabilità ex lege 104 e dilagati i BES (bisogni educativi speciali). In pratica oggi un bambino su quattro, alle elementari, ha una qualche forma di diagnosi. È una situazione inedita a livello storico. Molto hanno giocato le leggi recenti, quella per la dislessia e per i BES e anche gli screening nelle scuole per cercare a tutti i costi delle malattie psichiatriche nei bambini.

Non è un segno positivo di attenzione? Di una consapevolezza che anni fa non c’era?
Direi che questo fenomeno è legato più a un aumento dell’offerta che a un aumento della domanda. No, ci occuperemo delle malattie dei bambini quando emergeranno, così invece creiamo solo panico. Io contesto semplicemente il fatto che oggi quando c’è un problema con un bambino, a scuola o a casa, subito lo si invii a un neuropsichiatra, medicalizzando, senza step intermedi. La medicalizzazione è la sola strada e la sola risposta. Un bambino disturbatore invece può essere semplicemente un bambino vivace, immaturo, distratto, un bambino che fa il bambino, oppure un bambino i cui genitori non hanno rispettato i basilari educativi. Faccio esempi banali: se un bambino dorme 8 ore anziché 10, è chiaro che manifesterà dei problemi e che i suoi livelli attentivi saranno bassissimi, soprattutto se deve restare a scuola otto ore. E se uno guada la tv tre ore al giorno avrà un sistema mentale fortemente condizionato da questo, sarà privo delle necessarie esperienze motorie e sensoriali, di questo le maestre si accorgeranno. Ma è inutile fare una terapia, prima bisogna aggiustare i basilari educativi: se il bambino non dorme, prima bisogna restituirgli quell’insieme di regole di vita adatte al suo sviluppo. O quantomeno bisogna fare gioco squadra, non escludendo l’educazione dal recupero, come invece si fa oggi. È indebito entrare subito nell’ottica della malattia, senza percorrere altre strade, anzi è assurdo. Dobbiamo occuparci degli errori dei genitori e degli insegnanti, non degli errori dei bambini.

Quindi significa innanzitutto che ci sono delle malattie che derivano dall'educazione che diamo ai bambini?
Ho iniziato a parlare di malattie dell’educazione dieci anni fa e devo dire che sulle prime il concetto non è stato capito né preso in considerazione. Ma il boom di diagnosi che abbiamo visto in questi ultimi anni conferma quello che avevo immaginato, ovvero che i bambini avrebbero pagato le conseguenze della mancanza di riferimenti educativi e pedagogici. Se i basilari dell’educazione non vengono rispettati, si mettono i bambini nei guai. Una lente con cui si può leggere questa situazione infatti è la scomparsa della pedagogia in Italia: le facoltà di pedagogia sono state chiuse nel 1991 e oggi a scienze dell’educazione paradossalmente ci si può laureare senza aver fatto nemmeno un esame di pedagogia. C’è la didattica, certo, ma quella è una disciplina operativa, è come un chirurgo che non conosce la medicina. La scuola non ha più punti di riferimento pedagogici, 25 anni fa tutti gli insegnanti erano abbonati a una rivista pedagogica, oggi no, i maestri non hanno riferimenti pedagogici perché la pedagogia è stata eliminata dalla loro formazione, gli unici riferimenti esistenti sono sanitari. Non ne faccio una colpa a loro, il problema è che non c’è nessuno strumento alternativo, la scuola oggi medicalizza perché quello è l’unico binario percorribile, l’unico riferimento esistente.

Quali sono gli errori più frequenti che facciamo in campo educativo in questo senso, anche come genitori?
Mettere regole senza condividerle fra genitori: nel lettone sì/no, tv a cena sì/no, videogiochi sì/no. È un errore tragico, perché il bambino perde i riferimenti e diventa un tiranno, a scuola non avrà il senso dell’autorità e sarà oppositivo e disturbante. Il sonno che dicevo prima. L’eccesso di tv e videoschermi a scapito del pensiero magico, del movimento, della natura, delle esperienze sensoriali, il dramma dei videogiochi: la neurologa Frances E. Jensen sostiene che ci sia una riduzione della materia grigia e bianca del 20%.

Che alternativa ci può essere alla medicalizzazione? In che senso si può curare con l’educazione?
Curare con l’educazione significa ricondurre bambini e ragazzi all’interno di buoni comportamenti educativi, dove le loro fasi di sviluppo vengano rispettate, in cui loro possono fare i bambini senza venire colpevolizzati per la loro ontologica diversità dal mondo degli adulti e dalle aspettative che essi hanno. Dobbiamo fare quello che non stiamo facendo, aiutare i genitori – oggi sono loro l’anello più debole – a fare i genitori e ricordarsi che il loro compito principale è quello educativo. L’orientamento prevalente invece dinanzi a un bambino problematico è colpevolizzare il bambino e trasformarlo in un paziente psichiatrico.

Quali strumenti possiamo offrire per aiutare i genitori?
Intanto nessun ritorno, nessuna nostalgia, perché il genitore educatore non è mai esistito. Esisteva però un sistema dove l’adulto faceva l’adulto e il bambino faceva il bambino. Serve dare consapevolezza: bisogna dire ai genitori che ogni giorno è fatto di decisioni educative che si ripercuotono sul figlio e che la cosa più importante per dei genitori non è parlare con i figli ma il prendere decisioni educative, i due genitori insieme. Tenere un bambino di 4 anni nel lettone non è una banalità, è una decisione educativa e la scelta che fai si ripercuote sulla vita di tuo figlio. Mi piacerebbe ad esempio in ospedale alle neomamme si desse un kit pedagogico, non un set di cremine, perché la vita non è fatta di cremine: con un ospedale ci stiamo lavorando, le idee ci sono ma ci vorrebbero le risorse, le scuole genitori ad esempio sono totalmente autofinanziate, mentre questo è un compito della collettività. Sul versante educativo non c’è offerta, c’è il deserto. I genitori sono la più grande risorsa che abbiamo, devono essere aiutati con buone informazioni, non lasciati sprofondare nei blog: il problema non è il fai-da-te, ma che un genitore così fa del male a suo figlio.

Autrice: Sara De Carli 

Fonte: vita.it

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