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mercoledì 18 maggio 2016

La resilienza nei bambini

LA RESILIENZA NEI BAMBINI

Quest’estate ho letto un libro che mi ha aperto un mondo, quello della resilienza e di come favorirla nei bambini. Il libro è in inglese e ancora non esiste la traduzione in italiano; l’autore è Kenneth Ginsburg, pediatra specializzato all’ospedale per bambini di Philadelphia e professore universitario “pluri titolato” e soprattutto molto attivo nel sostegno a bambini e ragazzi, con l’obiettivo di aiutarli a diventare più resilienti.
Il libro è straordinario: definisce i fattori di cui si nutre la resilienza, racconta esperienze vissute e dà ai genitori e agli educatori consigli molto pratici.
Che cos’è la resilienza? Ginsburg la descrive così:
La resilienza è la capacità di risollevarsi da circostanze difficili, la dote che ci permette di esistere in questo mondo non perfetto, mentre ci muoviamo nel futuro con ottimismo e fiducia.
Il sogno di ogni genitore è crescere figli che conducono vite felici e affascinanti, senza sofferenza, preoccupazioni, problemi emotivi.
Ci piacerebbe vivere in un mondo idilliaco, in cui i bambini non devono preoccuparsi della pressione dei pari, del bullismo, dei conflitti dei genitori, del divorzio, di estranei pericolosi, di malattia o morte, povertà, crimini, terrorismo e guerra. Fantastichiamo di poterli salvaguardare da ogni possibile perdita, paura o pericolo.
Vorremmo avvolgerli in un morbido piumino e isolarli da qualsiasi sfortuna o dispiacere.
Ma anche se potessimo, sarebbe davvero un bene per loro?
Se potessimo immunizzare i bambini da tutte le delusioni e dallo stress, avrebbero mai la possibilità di fare esperienza della soddisfazione di affrontare una sfida, di riprendersi e scoprire che sono in grado di affrontare situazioni difficili?

Se avessimo una bacchetta magica per isolare i bambini dal dolore intorno a loro, non produrremmo individui freddi e incapaci di empatia, di provare ed esprimere amore, compassione, o il desiderio di aiutare gli altri? Sarebbero preparati a rendere il mondo un posto migliore?
Nessun genitore augura a suo figlio le avversità, ma dobbiamo essere realistici e aspettarci di avere dei problemi.
Non possiamo crescere bambini totalmente invulnerabili. Il nostro scopo deve essere quello di crescere bambini che sanno gestire gli alti e bassi che il mondo ha in serbo per loro.
Dobbiamo aiutarli a trovare la felicità anche quando le cose non vanno come vorrebbero.
Se vogliamo che nostri bambini vivano il mondo il più pienamente possibile, sfortunatamente con tutto il suo dolore, e grazie al cielo con tutta la sua gioia, il nostro obiettivo sarà la resilienza.
La resilienza viene comunemente definita come l’abilità di riprendersi dalle difficoltà, la qualità di rialzarsi.
La resilienza è una mentalità. Le persone resilienti vedono le sfide come opportunità.
Non cercano problemi, ma capiscono che alla fine i problemi li rafforzeranno. Piuttosto che cominciare dubitare di se stessi, a fare pensieri catastrofici, a sentirsi vittime e a chiedersi: perché a me?, loro cercano soluzioni.
Le persone resilienti hanno più successo nella vita, perché cercano di superare i propri limiti e imparano dai loro errori.
La resilienza potrebbe essere un fattore essenziale nel determinare non solo chi si adatterà alle circostanze, ma chi ne uscirà vincitore.
In termini di resilienza, alcuni bambini sembrano naturalmente dotati dell’abilità di riprendersi dagli ostacoli, mentre altri hanno bisogno di un supporto in più. Tutti i bambini, tuttavia, possono diventare più resilienti.
Ora ti chiedo: per caso ti senti stressato??
Siamo eternamente di corsa.
I bambini sono oberati di attività scolastiche ed extra curricolari.
Gli amici a volte li spingono a fare cose rischiose.
I genitori e gli insegnanti li spingono ad avere voti più alti.
Gli allenatori chiedono performance migliori.
I media bombardano i giovani con messaggi che dicono che non sono magri abbastanza, intelligenti abbastanza o attraenti abbastanza.
In questa atmosfera così pressante,
I bambini hanno bisogno di potersi immergere nelle loro forze.
Hanno bisogno di acquisire specifiche abilità per fronteggiare e riprendersi dalle avversità, e per essere preparati per le sfide future.
Non possono farlo completamente da soli, però. I genitori devono assumere la guida nel costruire la resilienza, ma l’abilità dei bambini di affrontare gli ostacoli è profondamente influenzata anche dalla comunità di adulti che li circondano.
E di che cosa hanno bisogno i bambini prima di tutto per sviluppare la resilienza? Di avere un forte senso di competenza personale.
La competenza è l’abilità o il know how necessario per gestire le situazioni in modo efficace.
Non è un vaga sensazione che mi fa dire “Posso farlo”. La competenza si acquisisce attraverso l’esperienza concreta. Per questo, i bambini non possono diventare competenti senza prima sviluppare un insieme di abilità che permette loro di fidarsi del proprio giudizio, di fare scelte responsabili e di affrontare situazioni difficili.
Pensando alla competenza di tuo figlio e a come puoi rafforzarla, Ginsburg ci consiglia di farci queste domande:
1. Aiuto mio figlio a concentrarsi sui suoi punti di forza e a sfruttarli?
2. Gli faccio notare quello che sa fare bene o mi focalizzo solo sui suoi errori?
3. Quando devo fargli notare uno sbaglio, sono chiaro e specifico o gli comunico che secondo me non ne fa mai una giusta?
4. Lo sto aiutando a costruire le abilità sociali e di controllo dello stress necessarie per renderlo competente nel mondo reale?
5. Gli parlo in un modo che lo stimola a prendere decisioni personali o mino il suo senso di competenza comunicandogli messaggi che non riesce a comprendere? In altre parole, gli faccio la paternale o favorisco la sua capacità di pensiero?
6. Gli permetto di commettere errori – in sicurezza – così che abbia modo di aggiustare il tiro, o cerco di proteggerlo da qualunque caduta o delusione?
7. Mentre cerco di proteggerlo, gli comunico che “Non penso tu possa farcela da solo?”
8. Se ho più di un figlio, riconosco le competenze di ognuno senza fare paragoni tra i fratelli?
Tu come rispondi a queste domande?
Fonte: www.mammeimperfette.com

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mercoledì 11 maggio 2016

Impariamo a guardare i nostri bambini

IMPARIAMO A GUARDARE I NOSTRI BAMBINI

Ecco la prima mossa che i genitori patentati conoscono bene: i figli vanno visti, vanno guardati! Non c'è figlio che non ami essere oggetto di attenzione da parte di qualcuno. “Guarda, mamma, che bel disegno ho fatto!”. “Guarda, papà, come vado bene in bicicletta!”. “Guarda, nonna, la maglietta nuova!”.
Persino gli adolescenti, che appaiono così sicuri e indipendenti, amano essere guardati. Che cosa sono i tatuaggi, il piercing e le tante cure del look se non un'invocazione: “Guardateci!”. Insomma, non c'è dubbio alcuno: i figli reclamano il nostro contatto visivo, i nostri occhi. Il contatto visivo soddisfa i loro bisogni emotivi più di quanto non li soddisfino (si noti) tutti i contatti digitali del mondo messi insieme. Guardare il figlio è come dirgli: “Tu esisti per me. Tu sei entrato nei miei pensieri, nel mio mondo affettivo”.
Non per nulla nei campi di concentramento tedeschi era severamente proibito ai prigionieri fissare negli occhi i loro carcerieri per timore che potessero essere inteneriti. Potenza dello sguardo visivo che, oltre a soddisfare i bisogni emotivi del figlio, come abbiamo appena detto, gli dà anche valore. Essere guardato, infatti, significa essere considerato. Non essere guardato significa non essere considerato, non essere nessuno. In una parola sola: lo sguardo è un potente fattore di autostima.
Dunque, una cosa è certa: se guardassimo i figli almeno quanto guardiamo il bagno e l'automobile, avremmo meno ragazzi tristi, meno ragazzi infelici, meno ragazzi ammalati di scontentezza.
A questo punto è chiaro che imparare a guardare i figli non è un optional, ma un preciso impegno.
Imparare a guardare perché non tutti gli sguardi sono pedagogicamente accettabili. Vi sono sguardi sbagliati e sguardi buoni.

Sguardi sbagliati
Un tipo di sguardo sbagliato è lo sguardo poliziesco che controlla in continuazione il figlio, non lo lascia libero un momento, lo tampina tutto il giorno. Lo sguardo poliziesco potrà fare un figlio disciplinato, ma non un educato; come lo sguardo dei carabinieri che controlla l'ordine, ma non forma uomini. Ai genitori che tendono ad avere lo sguardo poliziesco è bene ricordare due proverbi. Il primo: “Mai catena ha fatto buon cane!”. Il secondo: “Briglia sciolta un po' alla volta”.
Un secondo tipo di sguardo sbagliato è lo sguardo minaccioso. Vi sono genitori che sfruttano lo sguardo per dare ordini, rimproverare, criticare: “Guardami negli occhi!”, urlano, fissando il figlio con lo sguardo fulminante. È vero che i figli vanno rimproverati, ma lo sguardo truce non ci pare la via migliore per la sgridata. Papà e mamma dovrebbero essere ricordati dai figli con altri occhi, non con quelli severi e fulminanti.
Una confidenza: chi scrive ricorda con gioia gli occhi profondi e dolci della mamma che gli intercettavano il cuore e lo addolcivano.
Terzo tipo di sguardo sbagliato è lo sguardo indifferente. Tra tutti questo è, di certo, il peggiore. L'indifferenza è la bestia nera di ogni ragazzo (e non solo): gli gela l'anima, gli fa perdere la voglia d'essere al mondo. Non è forse vero che è piacevole vivere solo se si è accolti nel mondo affettivo di qualcuno?
Per favore, dunque, liberiamoci dagli sguardi sbagliati e passiamo a quelli buoni, tipici della misericordia, i soli pedagogicamente accettabili.

Sguardi buoni
Il primo tipo di sguardo buono è lo sguardo generoso che vede nel figlio ciò che nessuno vede. Lo scrittore francese François Mauriac (1885-1970) ha avuto una felicissima intuizione quando ha detto che: “Amare qualcuno significa essere l'unico a vedere un miracolo che per tutti gli altri è invisibile”. Ebbene, in ogni bambino vi è un miracolo nascosto. Di una cosa siamo convinti al 100%: se incominciassimo a vedere ciò che nostro figlio ha, non avremmo più tempo di pensare a quello che non ha. Esempio tipico di sguardo generoso è quello dei bambini che trasformano in sole il punto giallo del loro disegno.
Un secondo tipo di sguardo buono è quello che non si limita a vedere, ma arriva a guardare. Vi sono persone che vedono, ma non guardano. Gli animali vedono, ma non guardano.
Vedere è spontaneo. Guardare è una conquista. Vedere una persona è prendere semplicemente atto della sua presenza, guardarla è trasferirsi in essa, è cogliere il suo stato d'animo, le sue vibrazioni interiori.
Il figlio sente se è solamente visto o se è guardato; sente se si è lì per lui o se si è lì per l'amica con la quale parliamo; sente se si è lì per lui o per il bucato che stiamo stirando.
È vero che il figlio non deve monopolizzare tutta la nostra attenzione durante la giornata (sarebbe fortemente diseducativo: porlo sempre al centro dell'attenzione è preparare un piccolo despota), però riservargli, di tanto in tanto, un congruo spazio di considerazione totale è dargli l'indispensabile perché possa ringraziare d'esser nato!
Un terzo tipo di sguardo buono è quello sempre nuovo. Il figlio cresce e cambia: dobbiamo rinnovare anche il nostro modo di guardarlo. Perché ostinarci a vedere sempre e solo la piccola pianta e non il meraviglioso albero che sale? Perché non adattarci alla sua crescita?
Ad un certo punto dobbiamo cambiare gli occhiali ed accorgerci che il figlio non è più un bambino, ma un fanciullo, un adolescente e trarne le conseguenze nel nostro modo di parlargli e di trattarlo.

Autore: Pino Pellegrino
Fonte: B.S. febbraio 2016

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mercoledì 4 maggio 2016

La buona educazione in famiglia: la tenerezza

LA BUONA EDUCAZIONE IN FAMIGLIA: 
LA TENEREZZA
La tenerezza non è affatto qualcosa di molle e appiccicoso: non è dolcezza svenevole. 

Implica tutti gli altri linguaggi esistenti oltre quelli verbali: il linguaggio dello sguardo, del tatto, dell'odore, della vicinanza fisica, respiro, vibrazione. 
È tutti i “linguaggi dell'attenzione”: ascolto, sorriso, reciprocità, crescita insieme.


La tenerezza è come l'ossigeno
L'uomo ha due specie di esigenze: materiali e spirituali. Le esigenze materiali sono le più facili da soddisfare: cibo, riparo dalle intemperie, vestiti, ecc. Le esigenze spirituali ed emotive sono altrettanto importanti. Se non vengono soddisfatte, possono produrre esiti letali al pari della fame, della mancanza di ricovero, dell'impossibilità di placare la sete.
«Oggigiorno» scrive Leo Buscaglia «ciascuno di noi è troppo indaffarato per indugiare ad ascoltare i suoi interlocutori, per fare mente locale e porger l'orecchio alle istanze altrui, quand'anche si tratti dei suoi familiari. È quella che io definisco la “sindrome dell'uomo invisibile”. Una persona ci è davanti tutti i giorni, a tavola, in salotto, a letto. Ne avvertiamo la presenza fisica, eppure non la vediamo. Ci rifiutiamo, si direbbe, di guardarla». La tenerezza è come l'ossigeno. È presente ovunque allo stato di germe, di fiore e di sole in ognuno di noi. È assolutamente necessaria per vivere. Può nascere in occasione di ogni incontro, in ogni tipo di relazione. Ricevere tenerezza è sentirsi riconosciuto e accettato come un essere prezioso, come un essere eccezionale. Ho visto il corpo di una signora molto anziana raddrizzarsi, divenire più leggero, ignorare tanti suoi reumatismi e ridere di contentezza, quando il figlio grande che l'aveva presa fra le braccia per sollevarla fino al ripiano più alto della credenza ove c'era la marmellata, la poggiò a terra mentre stringeva fra le mani un barattolo di mirtilli dell'anno precedente.

Soprattutto la tenerezza è qualcosa di assolutamente gratuito
Si vive al di fuori di ogni costrizione, non s'inscrive in un rapporto di potere perché è anzitutto abbandono e offerta. La tenerezza è tutto ciò che sarebbe potuto sorgere nell'ottavo giorno della creazione se solo... l'umanità avesse fatto ancora un piccolo sforzo.
Ogni rapporto umano è una sfida. Milioni di uomini e donne si struggono per un amore profondo e non lo trovano. La maggior parte di questi prova un senso di isolamento interiore. Perché, si chiedono, si sentono soli? Perché la vecchia ansia persiste? Le braccia di una madre, la mano calda di un amico possono dare il coraggio necessario a rendere più tollerabile la coscienza della solitudine.

Dinamiche di tenerezza
• Ricevere l'attenzione dell'amore
La stranezza della nostra epoca sta nel fatto che la maggioranza degli uomini dedica quasi tutto il proprio tempo alle necessità materiali (fino ad affogare nel “troppo” di tutto), mentre dimentica le necessità spirituali ed emotive (salvo poi ricorrere a sistemi di sollievo artificiali o chimici). L'uomo necessita di essere veduto, ascoltato, apprezzato, fatto oggetto di tenerezza, sessualmente appagato. L'amore avverte e riconosce queste necessità. La tenerezza è presente ovunque allo stato di seme e di sole in ognuno di noi. Ricevere tenerezza è sentirsi riconosciuto e accettato come un essere prezioso, eccezionale.
• Imparare a ricevere
II primo passo è imparare a ricevere. Accogliere con amore significa rinunciare a certe caratteristiche distruttive come il bisogno di avere sempre ragione; voler essere primi in tutto; sentire il bisogno di possedere e di manipolare gli altri. Quando si prende in esame il proprio comportamento sarebbe bene chiedersi: «Se abitassi con me, vorrei starmi vicino?» Accogliere significa modificare il proprio comportamento, in modo da diventare veramente “amabili”. La tenerezza ha bisogno di tempo e di spazio.
• Inventare nuove forme di relazione
Una giovane donna sola raccontava che, una sera di primavera, era andata a fare una passeggiata in città, poi era entrata in un bar e “contrariamente alle mie abitudini, ho chiesto di potermi sedere ad un tavolo già occupato da qualcuno, e quell'uomo mi ha detto: «Non è la vigilia di Natale, ma che regalo lei mi fa». Abbiamo parlato così più di cinque ore. Non ho mai più rivisto quell'uomo, ma che bella serata ho passato...”. È una singolare contraddizione della nostra epoca detta “della comunicazione” che a mancare sia la forma più semplice e più necessaria dei contatti umani: la conversazione.
Più gente ci circonda, più ci si sente soli. Rivolgere la parola a uno sconosciuto è cosa che non si fa... Anche un sorriso può essere giudicato con sospetto: «Ma che cosa vuole questo?».
• Esprimere tenerezza
Un uomo raccontò agli amici il dono straordinario di sua moglie, un lunedì mattina: «Mi aveva accompagnato fin sul marciapiede della stazione per salutarmi. E pochi istanti dopo la partenza del treno, la vidi sedersi di fronte a me. “Nella emozione, mi disse, avevo dimenticato di dirti quanto fossi importante per me, e avrò bisogno di molto tempo, fino alla prossima stazione... per dirtelo”». Una donna confessava, con tono intriso di sconforto: «Sono dieci anni che è morto mio padre. E sento ancora il rimorso per non avergli mai detto: “Ti voglio bene”».
Quando l'apicoltore raccoglie il miele dalle arnie delle sue api, si muove con cautela, quasi con delicatezza, per non suscitare l'ira delle api che potrebbero ridurlo a mal partito. Non tira calci all'alveare, perché invece del miele rimedierebbe dolorose punture. Ma quanta gente invece affronta le sue giornate “tirando calci all'alveare, con critiche, condanne, giudizi affrettati. Tenerezza è ricordarsi delle feste, dei compleanni e degli onomastici. Tenerezza è scambiarsi regali.
• Tenerezza è responsabilità
Oggi anche la tenerezza è inquinata: molti la intendono come mezzo di seduzione per possedere l'altro, per “conquistarlo”. La tenerezza ama i frutti maturi, non quelli acerbi: ha il senso dell'attesa. Di questo la tenerezza non ha mai paura. Perché, anche se può sembrare un paradosso, la gioia della tenerezza nasce sempre e solo nel sacrificio.

LA TENEREZZA È UNA MADRE
Lui mi diceva che ero carina.
Mia madre mi diceva che puzzavo di roba chimica.
Lui mi diceva “Fuggiremo insieme”.
Mia madre mi diceva “Pulisci la tua stanza”.
Lui mi diceva “Sei la mia amica per sempre”.
Mia madre mi diceva “Lascia libero il telefono”.
Poi lui improvvisamente scomparve.
E fu allora che mia madre, col suo odore di latte caldo, mi disse che ero bella.

Autori: Ferrero B. – Peiretti A.
Fonte: B.S. aprile 2016


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mercoledì 27 aprile 2016

Le cicatrici dell'infanzia che durano per sempre

LE CICATRICI DELL'INFANZIA CHE 
DURANO PER SEMPRE


L’infanzia è quel momento della vita in cui si verifica un bel paradosso: siamo capaci di mettere basi di cemento in brevissimo tempo senza neppure rendercene conto, ma al tempo stesso lasciare cicatrici profondissime. A 4 anni comincia già a definirsi il nostro modo di essere. Da quel momento in poi, quel che resta è sviluppare o frenare l’inerzia che abbiamo assunto durante i nostri primi anni di vita.
L’infanzia lascia cicatrici che durano per sempre. Sono segni indelebili, che si riflettono principalmente sull’atteggiamento che assumiamo verso noi stessi e verso gli altri. Tuttavia, alcune di queste cicatrici sono più persistenti e profonde, a causa del grande impatto che causano nella mente di un bambino.


“Il modo migliore affinché i bambini siano buoni è renderli felici.”
-Oscar Wilde-


L’impossibilità di fidarsi fin dall’infanzia

Quando un bambino viene manipolato o tradito insistentemente dai suoi genitori o tutori, difficilmente si fiderà delle altre persone né di se stesso. Dovrà lottare con tutte le sue forze contro quella tendenza a non avere fiducia per riuscire a stabilire dei vincoli intimi con gli altri.

Si imbroglia un bambino quando gli si promettono cose che non può avere o che non ci si impegna a compiere. Per questo motivo, è importante regalare ad un bambino il giocattolo che gli avevate promesso, portarlo a giocare al parco il giorno stabilito insieme e dedicargli il tempo che avevate promesso di dedicargli.
Queste azioni agli occhi degli adulti possono passare inosservate o prive di importanza. Tuttavia, per i bambini rappresentano un insegnamento riguardo a cosa aspettarsi, in generale, dalle persone care.
Se un bambino osserva che i suoi genitori mentono, imparerà che le parole hanno poco valore. Avrà quindi difficoltà a credere a quello che dicono gli altri e a sforzarsi per rispettare le sue stesse parole. Questa cicatrice implica che, durante lo sviluppo, il bambino avrà grandi difficoltà a stringere rapporti con gli altri e a costruire una vera intimità – rifugio- nel quale si senta al sicuro con qualcuno.

La paura dell’abbandono

Un bambino che si è sentito solo, ignorato o abbandonato, inizierà a credere che la solitudine è totalmente negativa e opterà per una delle seguenti scelte: diventerà eccessivamente dipendente dagli altri, cercando di continuo qualcuno che lo protegga e lo accompagni, oppure rinuncerà alla compagnia degli altri, come misura di precauzione per non soffrire un potenziale abbandono.
Coloro che seguono la scia della dipendenza, saranno in grado di tollerare qualsiasi tipo di relazione pur di non sentirsi soli. Credono di essere completamente incapaci di affrontare la solitudine e, per questo, sono disposti a pagare qualsiasi prezzo per la compagnia.
Chi scappa la paura dell’abbandono per la via dell’indipendenza ad oltranza è incapace di godere dell’affetto sincero di una persona cara. Per queste persone, l’amore è sinonimo di paura. Quanto più affetto proveranno per un’altra persona, più crescerà la loro ansia e il loro desiderio di scappare. Sono le classiche persone disposte a porre fine ad una relazione invidiabile per l’angoscia che provocherebbe loro un’eventuale perdita della figura amata.La paura del rifiuto
Un bambino che è stato continuamente criticato e sminuito dai suoi genitori diventa nemico di se stesso. In questo modo, sviluppa un dialogo interiore nel quale le costanti sono l’auto-rimprovero e l’auto-recriminazione.
Questo bambino, in età adulta, probabilmente non si sentirà mai in accordo con ciò che fa o pensa. Troverà sempre il modo di sabotare i suoi piani e gli sarà difficile capire che possiede anche delle virtù e che può avere successo. Sentirà di non meritare l’affetto né la comprensione di nessuno, e che le sue espressioni d’amore nei confronti degli altri mancano di validità.
In generale, questi bambini si trasformeranno in adulti isolati e sfuggenti, che proveranno panico in situazioni di contatto sociale. Allo stesso tempo, saranno estremamente dipendenti dalle opinioni altrui. Di fronte ad ogni minima critica, si sminuiscono del tutto, poiché non sanno distinguere un’osservazione oggettiva da un attacco personale.
Se oltre ad essere stato rifiutato, il bambino è anche stato umiliato, le conseguenze saranno ancora più gravi. L’umiliazione lascia sentimenti di ira irrisolti, che si trasformano in una sensazione continua di impotenza. Questa condizione molte volte trasforma le persone, rendendole tiranniche ed insensibili, e portandole ad umiliare gli altri.
Le cicatrici lasciate da queste esperienze infantili sono molto difficili da rimarginare. Tuttavia, questo non significa che non sia possibile né che non possano trasformarsi positivamente. Il primo passo sta nel riconoscerle e nell’essere consapevoli che bisogna lavorarci su, per impedire che determinino il resto della nostra vita.

Fonte: www.lamenteemeravigliosa.it
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martedì 19 aprile 2016

La buona educazione in famiglia: il perdono

LA BUONA EDUCAZIONE IN FAMIGLIA: IL PERDONO
Oggi è diffusa una evidente difficoltà a chiedere scusa. Il concetto di perdono è largamente ignorato. Uno dei motivi per cui molti adulti hanno difficoltà a esprimersi con il linguaggio del perdono sta nel fatto che non hanno mai imparato quel vocabolario durante l'infanzia. Ecco i passi da fare per impararlo.

L'arte del perdono deve essere imparata durante l'infanzia. Un bambino può imparare a chiedere scusa quando è ancora piccolo e il suo livello di comprensione dell'importanza del perdono richiesto e donato deve crescere insieme a lui. In questo modo pone le basi per la crescita morale e relazionale degli anni successivi.
I genitori devono accompagnare i bambini attraverso una serie di tappe semplici ma decisive.

Il primo passo da compiere per insegnare ai nostri figli a chiedere scusa consiste nel condurli ad assumersi la responsabilità del loro comportamento. Questo percorso può cominciare molto presto e in contesti moralmente neutri. Assumersi la responsabilità delle proprie parole e delle proprie azioni è il primo passo per imparare a chiedere scusa. Generalmente, i bambini si assumono di buon grado la responsabilità delle loro azioni positive. «Ho mangiato tre forchettate di spinaci. Posso avere il budino, adesso?». «Sono il più veloce di tutti a correre». «Ho disegnato una bella automobile durante l'ora di arte». Sono tutte affermazioni di assunzione di responsabilità per azioni positive.
Invece, i bambini non sono così pronti ad assumersi la responsabilità per azioni meno nobili. Qual è stata l'ultima volta in cui avete sentito un bambino di tre anni ammettere: «Ho mangiato il dolce che la mamma aveva detto di lasciar stare» oppure: «Ho spinto Nicolino»? Un'assunzione di responsabilità a questo livello richiede un notevole sforzo di attenzione da parte dei genitori, che devono con pazienza correggere tutte le frasi del tipo «Si è rotto!» in frasi che cominciano per “io”: «Io l'ho rotto!»

Il secondo passo per insegnare ai bambini a chiedere scusa consiste nell'aiutarli a comprendere che le loro azioni influiscono sempre sugli altri. «Se aiuti la mamma a preparare la tavola, la mamma è felice. Se giochi con la palla in casa e rompi la lampada, la mamma è triste. Se dici alla sorellina: “Ti voglio bene”, lei si sente amata, se invece le dici: “Ti odio”, si sente ferita. Le tue parole e le tue azioni aiutano o feriscono altre persone. Quando aiuti qualcuno, ti senti bene, quando invece ferisci una persona, stai male».
Gli esseri umani sono fragili e vulnerabili. Tutti portano un'etichetta che dice: «Trattare con cura, maneggiare con cautela, merce delicata».

Il terzo passo per insegnare ai bambini a chiedere scusa consiste nell'aiutarli a comprendere che nella vita ci sono sempre regole. La più importante è la regola d'oro insegnata da Gesù: tratta gli altri come vorresti essere trattato tu.
Vi sono però tante altre regole, molte delle quali sono finalizzate ad aiutarci a vivere bene. «Non si gioca a palla in casa» è una regola che molti genitori hanno stabilito per ovvie ragioni. «Non dobbiamo prendere nulla che non ci appartenga. Non dobbiamo dire cose non vere su altre persone. Non dobbiamo attraversare la strada senza esserci accertati che non provengano veicoli da una parte e dall'altra. Dobbiamo dire “grazie” quando una persona ci offre qualcosa o dice qualcosa di bello sul nostro conto. Dobbiamo andare a scuola tutti i giorni feriali, se non siamo ammalati o non c'è un problema grave».

Il quarto passo per aiutare i bambini a imparare a chiedere scusa consiste nel far loro comprendere che è necessario chiedere scusa, per mantenere buoni rapporti interpersonali. Quando ferisco una persona con le mie parole o con il mio comportamento, costruisco una barriera tra quella persona e me. Se non imparo a chiedere scusa, la barriera rimane e il mio rapporto con quella persona è incrinato. Le mie parole o le mie azioni offensive spingono le persone lontano da me e, in assenza di una richiesta di scuse, quelle persone continueranno ad allontanarsi. Il bambino, l'adolescente o l'adulto che non impara questa realtà alla fine si ritroverà isolato e solo.

Tutto questo può essere riassunto in una specie di scaletta di cinque gradini, che per i più piccoli può essere quasi un gioco: 1. Esprimere rammarico: «Mi dispiace» 2. Assumersi le proprie responsabilità: «Ho sbagliato» 3. Cercare di rimediare: «Che cosa posso fare per riparare?» 4. Impegnarsi sinceramente per il futuro: «Cercherò di non farlo più» 5. Chiedere scusa: «Puoi perdonarmi?».
L'obiettivo è che i bambini acquisiscano una specie di “mentalità del perdono”. Il livello di capacità in questo senso dovrebbe crescere con l'età ed è molto simile al processo di apprendimento di una lingua.
In ogni caso, il metodo più efficace per insegnare ai bambini più grandi a parlare i linguaggi del perdono è costituito dall'esempio. Quando i genitori chiedono scusa ai loro figli per le parole dure o il trattamento ingiusto di cui hanno dato prova, offrono l'insegnamento più efficace. I bambini piccoli fanno quello che dicono i genitori; i figli più grandi fanno ciò che fanno i genitori. Se i genitori imparano a chiedere scusa uno all'altra, ai loro figli e ad altre persone, allora i figli impareranno anche a parlare i linguaggi del perdono.
Siamo più simili a bestie quando uccidiamo. Siamo più simili a uomini quando giudichiamo. Siamo più simili a Dio quando perdoniamo.

CHIODI
C'era una volta un ragazzo dal carattere molto difficile. Si accendeva facilmente, era rissoso e attaccabrighe.
Un giorno, suo padre gli consegnò un sacchetto di chiodi, invitandolo a piantare un chiodo nella palizzata che recintava il loro cortile tutte le volte che si arrabbiava con qualcuno.
Il primo giorno, il ragazzo piantò trentotto chiodi.
Con il passare del tempo, comprese che era più facile controllare la sua ira che piantare chiodi e, parecchie settimane dopo, una sera, disse a suo padre che quel giorno non si era arrabbiato con nessuno.
Il padre gli disse: «È molto bello. Adesso togli dalla palizzata un chiodo per ogni giorno in cui non ti arrabbi con nessuno».
Dopo un po' di tempo, il ragazzo poté dire a suo padre che aveva tolto tutti i chiodi.
Il padre allora lo prese per mano, lo condusse alla palizzata e gli disse: «Figlio mio, questo è molto bello, però guarda: la palizzata è piena di buchi. Il legno non sarà mai più come prima. Quando dici qualcosa mentre sei in preda all'ira, provochi nelle persone a cui vuoi bene ferite simili a questi buchi. E per quante volte tu chieda scusa, le ferite rimangono».

Autori: Ferrero B. – Peiretti A.
Fonte: B.S. marzo 2016
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mercoledì 13 aprile 2016

Educare a pensare

EDUCARE A PENSARE


Educare i propri figli non è facile, e ancora più difficile è insegnare loro a pensare. Entrambi questi insegnamenti implicano sforzo e dedizione e, nella maggior parte dei casi, a noi non è stato insegnato fin da piccoli, il che significa che ora non sappiamo come trasmettere questi valori ai nostri figli.
Per insegnare loro a pensare, la prima cosa da prendere in considerazione è il fatto che i nostri figli sono in grado di farlo poiché, nonostante la loro tenera età, hanno l’abilità di sviluppare una logica propria, un proprio ragionamento e delle strategie, che sono tanto utili nella vita quanto l’imparare a prendere le proprie decisioni.

 

Ubbidire non è educativo

Diversamente da ciò che siamo abituati a sentire, ubbidire non serve ad educare o ad insegnare, ma è utile solo a stabilire un legame di sottomissione e ad assicurarsi che tutto sia sotto il proprio controllo quando i più piccoli ci ubbidiscono.

Ubbidire si può usare con un animale, poiché non pensa, e il suo addestramento si basa sull’ubbidire in cambio di un premio o di un riconoscimento.
Tuttavia, i bambini, come esseri umani, anche se sono piccoli, hanno la facoltà di pensare, di capire e di ragionare e, ovviamente, hanno il diritto di essere se stessi, con le proprie idee, convinzioni e ragionamenti, anche quando noi non siamo d’accordo con loro.

“L’educazione consiste nell’aiutare un bambino a rendere reali i propri talenti”
-Erich Fromm-

La difficoltà di ubbidire senza sottomettere

Se assumiamo il punto di vista dell’educatore adulto, è normale che sia molto più difficile educare i bambini senza richiedere loro di essere ubbidienti, ma facendolo attraverso il rispetto, insegnando loro a pensare e valorizzandoli.
Durante l’infanzia, abbiamo la capacità di assorbire tutto ciò che ci circonda, sviluppando così un’idea del mondo che viene adattata alla nostra età. Ciò significa che,se insegniamo ai bambini a ubbidire e a rimanere all’interno di certe restrizioni, è normale che, anche con un bambino disubbidiente, per l’adulto il compito da educatore sia abbastanza facile, poiché potrà gestire queste situazioni con autorità, imponendosi, mettendo paura e facendo uso di punizioni. Tuttavia, in questo modo, il messaggio che arriva al bambino è di non essere importante per il mondo, il che sarà poi fonte di insicurezze.
Ciò significa che, senza dubbio, l’educazione diventa complicata quando vogliamo insegnare ai più piccoli a pensare, a capire, a trarre le proprie conclusioni e a riflettere.

 

Dedizione, tempo e motivazione

Insegnare a pensare richiede dedizione, tempo, pazienza e sapere come fare, facendo uso delle strategie giuste. Per questo, è necessario un atteggiamento riflessivo, rispettoso e che nasca dall’amore, perché l’impegno porti a risultati soddisfacenti.
Senza dubbio, raggiungere quei risultati significa permettere al bambino di crescere in salute dal punto di vista emotivo, sentendosi amato, rispettato e ascoltato. Crescerà, quindi, forte e sicuro di sé, pronto ad affrontare, una volta adulto, le avversità della vita, sapendo come riflettere su questioni diverse e come prendere le decisioni migliori.

Come si insegna a pensare?

Per insegnare a pensare, è importante adottare una serie di strategie a livello educativoche, giorno dopo giorno, permetteranno al piccolo di crescere, definendo se stesso di fronte alla vita e di fronte a noi, imparando e capendo il mondo e ciò che è meglio per lui e per la strada che dovrà percorrere, potendo contare sempre sul nostro amore, sul nostro sostegno e sulla nostra vicinanza. Ecco quali sono queste strategie:
·        Prima di tutto, bisogna dimostrare e spiegare al bambino che è la persona più importante della nostra vita, donandogli l’affetto, l’amore e il riconoscimento che si merita in questo momento in cui sta superando se stesso, sta imparando e sta crescendo.
·        Bisogna dargli la possibilità di trovare la sua strada, ovvero non dargli tutto già fatto, risolto o finito. Con il sostegno e il nostro aiuto, dobbiamo permettergli di fare le cose da solo, anche se corre il rischio di sbagliare e anche se dovrà correggersi più tardi.
·        La comunicazione e il linguaggio sono fondamentali, e parliamo sia di quello verbale sia di quello corporeo e di quello emotivo. È molto importante parlagli in modo chiaro, semplice e affettuoso.
·        Di fronte ai suoi ragionamenti e alle sue piccole decisioni, bisogna ascoltare, spiegargli le conseguenze che avranno e, in alcuni casi, lasciare che le viva da solo, così che possa trarre le proprie riflessioni e i propri apprendimenti dalle sue esperienze.
·        Bisogna spronarlo, essere positivi quando raggiunge piccoli traguardi e scoperte, e motivarlo a imparare ciò che, come adulti, consideriamo importante; per esempio, abitudini d’igiene personale, studi, comportamenti, ecc…
È importante giungere a degli accordi, a delle conseguenze concordi, in modo che, a partire dalla comunicazione, dalla comprensione e dalla negoziazione, i bambini facciano parte delle decisioni, delle regole e dei valori che vogliamo insegnare loro e, in generale, della loro vita, riflettendo da soli su cosa li spinge ad andare avanti e cosa li rende felici.

“Non nascondete ai vostri figli le difficoltà della vita, piuttosto insegnate loro a superarle”.
-Louis Pasteur-

In questo modo, i nostri figli cresceranno sani a livello emotivo, sicuri di sé e capaci di prendere le proprie decisioni.

Fonte: www.lamenteemeravigliosa.it
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mercoledì 6 aprile 2016

Il silenzio dei padri di fronte ai figli stesi sul divano

"GLI SDRAIATI" di MICHELE SERRA
Il silenzio dei padri di fronte ai figli stesi sul divano

Freud dava ai genitori due notizie, una cattiva e una buona. Quella cattiva: il mestiere del genitore è un mestiere impossibile. Quella buona: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità. Come dire che l'insufficienza, la vulnerabilità, la fragilità, il senso dei propri limiti, non sono ingredienti nocivi all'esercizio della genitorialità. Tutt'altro. E' da queste due notizie che trae linfa Gli sdraiati, il nuovo, imperdibile, libro di Michele Serra che racconta la sua testimonianza singolare di padre. Se nella nostra cultura il tema della paternità è diventato negli ultimi anni un tema egemonico, è perché intercetta una angoscia diffusa non solo nelle famiglie, ma nelle pieghe più profonde del nostro tessuto sociale: cosa resta del padre nell'epoca della sua evaporazione autoritaria e disciplinare? Può esistere ancora una autorità simbolica degna di rispetto? Può la parola di un padre avere ancora un senso se non può più essere la parola che chiude tutti i discorsi, che può definire dall'alto il senso Assoluto del bene e del male, della vita e della morte?

Il padre di cui ci parla Serra attraverso il suo caso personale non nasconde affatto la paradossale "fragilità materna", la schizofrenica incarnazione dell'autorità che oscilla paurosamente tra la spinta a sgridare e quella a soccorrere, non cancella le contraddizioni del suo parlamento interno, abitato, come quello di tutti - come ricordava giustamente Gilles Deleuze ai rivoluzionari degli anni Settanta - da reazionari che invocano il ristabilimento repressivo dell'ordine. Questo nuovo padre non ha più a che fare con truppe di figli intimoriti dalla sua potenza titanica, né con figli ribelli che contestano la sua azione repressiva. Non si era mai vista prima una cosa del genere, commenta un amico di Serra preparandosi alla vendemmia in una bella mattina d'autunno mentre osserva i ragazzi che preferiscono trascorrere la mattina nei loro letti anziché unirsi ai "vecchi". "Non si era mai visto prima che i vecchi lavorano mentre i giovani dormono". Una mutazione antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri figli. Michele Serra la sintetizza come passaggio dalla posizione eretta a quella orizzontale: eccoli, gli sdraiati, avvolti nelle loro felpe e circondati dai loro oggetti tecnologici come fossero prolungamenti post-umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di oggi, quelli che preferiscono la televisione allo spettacolo della natura, che non amano le bandiere dell'Ideale, ma che vivono anarchicamente nel loro godimento autistico, eccoli in un mondo dove "tutto rimane acceso, niente spento, tutto aperto, niente chiuso, tutto iniziato, niente concluso". Eccoli i consumisti perfetti, "il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo nutre, l'illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa".

Non si era mai visto niente di simile a questa generazione. Sia detto senza alcun moralismo, precisa Serra. Non è né bene, né male; è una mutazione, "è l'evoluzione della specie", come commenta suo figlio.

Gli Sdraiati è un libro tenerissimo dove la consueta ironia e la forza satirica che tutti amiamo in Michele Serra si alterna a momenti struggenti, ad una nostalgia lirica di rara intensità e alla bellezza pura della scrittura. Come quando descrive l'orizzonte metafisico delle Langhe o la resistenza commovente al vento e alla pioggia delle portulache sulla terrazza della casa del mare dei propri avi, o, come quando racconta con stupore la scoperta dell'abitudine del figlio ipertecnologico di raggiungere il tetto della scuola per guardare le nuvole, o quando lo descrive stravaccato sul divano indugiando sul suo volto addormentato che "contiene il suo addio agli anni dell'innocenza", o come quando, ancora, osserva stupefatto, nelle pagine finali del libro, il figlio oltrepassarlo sul sentiero di montagna del Colle della Nasca che egli dubitava avrebbe mai potuto percorrere sino in fondo.

La giovinezza si palesa innanzitutto nell'odore. Nei versetti dedicati a Giacobbe la Bibbia descrive soavemente l'odore del figlio come quello neutro di un campo. Nell'età della giovinezza, come i genitori sanno bene, questo incanto si rompe. Era stato facile amarli da piccoli, quando l'odore del loro corpo era quello del campo. Adesso invece il corpo sgomita. Una delle etimologie del termine adolescenza significa infatti arrivare ad avere il proprio odore. È quello che accade anche agli sdraiati. Il corpo fa irruzione sulla scena della famiglia con la sua forza pulsionale di cui i calzini puzzolenti che il padre raccoglie con pazienza e disperazione per casa sono una traccia emblematica. Questo corpo spinge alla vita. Ma spinge a suo modo. Senza ricalcare quello che è avvenuto nella generazioni che li ha preceduti. Gli sdraiati sembra facciano collassare ogni possibilità di dialogo. La parola non circola. Sembra vivano in un mondo chiuso allo scambio.

In Pastorale americana di Philip Roth l'impossibilità del dialogo tra le generazioni viene resa spietatamente attraverso le scelte del terrorismo e del fondamentalismo religioso compiute dalla figlia balbuziente per manifestare in questo modo la sua opposizione ostinata al padre. Niente del genere per Gli sdraiati di Serra. Il figlio non sceglie la via dell'opposizione ideologica, della lotta senza quartiere, della rabbia e della rivolta. Egli sembra piuttosto appartenere ad un altro mondo. Così lo guarda suo padre. Senza giudizio, ma come si guarda qualcosa di irraggiungibile, qualcosa che non possiamo governare. Per questo Serra invita le vecchie generazioni a porre fine allo loro assurda guerra che viene descritta - in una atmosfera oniroide alla Blade Runner - come uno scontro epico tra la moltitudine stremata dei Vecchi e la forza resistente dei Giovani.

Il condottiero dei Vecchi Brenno Alzheimer, alias Michele Serra, sa che la sua guerra è sbagliata, sa che è sbagliato odiare la giovinezza, guardarla con lo sguardo torvo e risentito da chi ormai ne è fatalmente escluso, sa che è sbagliato rifiutare la legge irreversibile del tempo. Brenno Alzheimer, diversamente dai padri ipermoderni che esorcizzano il passare del tempo come una maledizione, sa che sono i Giovani a dover vincere la guerra perché è "la bellezza che deve vincere la guerra. La natura deve vincere la guerra, la vita deve vincere la guerra. Voi giovani dovete vincere la guerra". Il segreto più grande nel rapporto tra le generazioni è quello di saper amare la vita del figlio anche quando la nostra inizia la fase del suo declino. Non avere paura del proprio tramonto è la condizione per la trasmissione del desiderio da una generazione all'altra. E non dispererei che le portulache che sono
state oggetto di cura da tre generazioni nella terrazza della casa del mare - "la cura del mondo è una abitudine che si eredita", scrive Serra - possano trovare nello sdraiato, apparentemente indifferente allo spinozismo panteistico del padre, il loro giardiniere impossibile. 

Fonte: www.repubblica.it
Autore: Massimo Recalcati

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