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mercoledì 25 ottobre 2017

Figlio unico, guaio o fortuna?

FIGLIO UNICO, GUAIO O FORTUNA?

La nostra è, ormai, una società di figli unici. In Italia superano il 25 per cento. Ebbene, essere figlio unico è una fortuna oppure un pericolo? Un'opportunità o un problema?

Perché i lettori possano discutere con cognizione di causa, vediamo i pro e i contro dell'essere figli unici e i pro e i contro della 'fratria', cioè dell'esperienza dei fratelli. 

FIGLIO UNICO: LUCI ED OMBRE 
Secondo alcuni i figli unici sarebbero più fortunati dei figli con fratelli: 
• Il fatto di essere figlio unico permetterebbe di non conoscere l'invidia, almeno in casa. 
• Il figlio unico sarebbe meno aggressivo, non avendo l'occasione di bisticciare con la pestifera sorellina. 
• Il figlio unico sarebbe più ambizioso per voler ricambiare, ad ogni costo, i genitori che tanto hanno fatto per lui. 
• Potrebbe sviluppare meglio l'intelligenza, avendo la possibilità di studiare in pace nella sua cameretta, senza essere disturbato dagli strepiti e dalle urla dei fratellini.

Secondo altri, invece, i figli unici sarebbero svantaggiati: 
• Senza fratelli il bambino corre il pericolo di non imparare a collaborare. 
• Il figlio unico può diventare egocentrico, freddo, narcisista: tutti ostacoli pesantissimi per la crescita armoniosa e serena della persona umana. 
• Il figlio unico può essere caricato, da parte dei genitori, di aspettative esagerate, superiori alle sue reali possibilità. E così può facilmente diventare vittima di quella che viene chiamata la 'sindrome del 4-2-1': quattro nonni, due genitori tutti in attesa dei trionfi dell'unico rampollo che non sempre è in grado di soddisfare tante aspettative. Di qui gli stati di depressione, di insicurezza, di tristezza, di sensi di colpa per non aver realizzato tanti 'sogni di gloria' dell'intera parentela. 
• Senza fratelli, vi è il rischio che i genitori proteggano troppo il bambino. Il pericolo viene evidenziato, ad esempio, dal pedagogista Luigi Pati: «La tentazione di portarlo continuamente dal pediatra o di non allontanarsi mai un attimo da lui nel timore che gli succeda qualcosa è forte, fortissima. Volendo ad ogni costo farlo felice, in realtà lo si rende infelice». 
• Infine, il figlio unico può sentire in maniera molto più amplificata le tensioni di coppia: liti, separazioni, divorzio. Privo di un fratello con cui discutere e comprendere quanto sta accadendo, il figlio unico può soffrire enormemente, tutto chiuso in se stesso, fino a rendersi insopportabile la vita.

Cari fratelli 
Dopo aver visto i pro e i contro dell'essere figlio unico, passiamo a considerare gli elementi positivi e negativi della 'fratria'. Anche qui, infatti, abbiamo luci e ombre. 
• Un primo aspetto positivo del poter vivere con fratelli è il fatto che permetta di vivere con gli altri. Il che è decisamente bene! È dimostrato che da adulto chi ha avuto fratelli è più disponibile, più ottimista, meno pauroso, più propositivo. Insomma, la 'fratria' impedisce l'affievolirsi di alcuni grandi valori sociali quali la solidarietà, la gratuità, l'abitudine alla condivisione, alla tolleranza. Una società di figli unici è psicologicamente più povera e meno felice! 
• Un secondo lato positivo della 'fratria' è il fatto che vince la solitudine che intristisce sempre il bambino. Ecco perché sovente il piccolo invoca: «Mamma, comperami un fratellino!». Avere un fratello significa avere un compagno di giochi con cui spartire gli spazi comuni, con cui vivere la complicità che tanto aiuta a fare gruppo. 
• Terzo aspetto positivo del vivere con fratelli è il fatto che prepara il bambino ad avere, domani, una relazione migliore con il partner. Pare che chi, fin da piccolo, ha fatto l'esperienza di vivere con una persona di sesso opposto, sappia con più esattezza almeno che cosa non volere dal partner di domani. Il che non è poco!

Però anche la 'fratria' ha i suoi lati oscuri. 
• Avere fratelli significa essere detronizzato. 
• Avere fratelli significa incontrare ostacoli, opinioni diverse che quasi inevitabilmente portano a litigi, a screzi. 
Ma dobbiamo domandarci: è un male essere detronizzati? 
No, affatto! «Non vi è niente di più dannoso per un bambino che sentire che tutti sono ai suoi piedi!» sosteneva la famosa psicanalista francese Françoise Dolto. 
Così pure non è male il litigio (ovviamente contenuto entro certi limiti). Il conflitto spinge a crescere, è un esercizio che insegna a togliersi d'impaccio, a farsi le ossa.

A questo punto, possiamo tirare le somme? 
Dunque vi sono luci ed ombre tanto nell'essere figlio unico quanto nel vivere con fratelli. 
Comunque ci pare che le due situazioni non siano omologabili. 
La 'fratria' offre qualcosa in più alla formazione del figlio. 
Vien da dire che i fratelli sono la più bella disgrazia che possa capitare ad un uomo!

Autore: Pino Pellegrino
Fonte:www.biesseonline.org

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mercoledì 18 ottobre 2017

7 consigli per gestire le emozioni dei bambini

7 CONSIGLI PER GESTIRE LE EMOZIONI DEI BAMBINI

Quando un genitore si trova davanti a un'esplosione emotiva del proprio bambino: rabbia e paura, tristezza e disgusto, sorpresa e felicità, spesso non sa come gestirla.

"Non esistono ricette per essere buoni genitori" scrive Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell'età evolutiva,  nel suo libro "L'educazione emotiva" (Fabbri Editori), ma secondo recenti ricerche scientifiche basate sulle neuroscienze quello che può far la differenza è l'educazione emotiva: cioè far sentire il proprio figlio compreso e accolto nelle sue emozioni. "L'adulto deve diventare un allenatore emotivo" spiega Pellai.

Le emozioni primarie sono: rabbia, tristezza, disgusto, paura, sorpresa e felicità, dalle quali poi derivano le secondarie che sono: ansia, timore, terrore, angoscia, desolazione.

Ecco quindi sei esempi pratici su come un genitore deve gestire queste emozioni e quali strategie mettere in atto per contenerle

1. Educazione emotiva: il genitore deve "sentire" il proprio figlio
Il genitore, oltre alle funzioni primarie di cura e accudimento, deve occuparsi della crescita serena del proprio figlio. Per far questo è fondamentale che empatizzi con lui. Il bambino deve essere "sentito e compreso" a livello profondo nella mente dei suoi genitori. "Un bambino crescerà tanto più sicuro e protetto quanto più avrà al suo fianco adulti capaci di sentire e pensare ciò che lui sente e pensa e che, comprendendo i suoi stati mentali, forniranno risposte e soddisfazione a quei bisogni che lui non sa esprimere".
 
2. Gestire la rabbia: create in casa un "angolo" dove il piccolo possa sfogarsi
"Le basi per una sana gestione della rabbia vengono costruite in età infantile e derivano dalla competenza con cui gli adulti sanno dare risposta ai bisogni del bambino sin da neonato".
Quando il bambino è in preda alla rabbia e sta facendo un capriccio, il genitore emotivamente competente non deve cadere nel copione "tu sei mio nemico", ma trasformare questa opposizione in cooperazione.
Insomma davanti a un mega capriccio, il genitore anziché perdere il controllo a sua volta deve dimostrare con i fatti che le emozioni forti sono gestibili e noi adulti ne siamo capaci.

Pellai consiglia di stabilire in casa un angolo dove accompagnare i bambini che stanno facendo i capricci, un angolo dove l'emozione possa essere scaricata fino a esaurirsi, così che poi in casa torni la calma e genitore e bambino possano sentirsi nuovamente alleati.

 Si trattata di uno spazio di decantazione. Il genitore, accompagnando il bambino, può dire: "Visto che sei così arrabbiato, ora ti metto nell'angolo della rabbia. Qui puoi urlare quanto vuoi, poi quando ti sei calmato puoi uscire, così facciamo qualcosa di bello insieme".
Nell'angolo della rabbia il bambino impara a recuperare il controllo di sé: questo processo si chiama autoregolazione emotiva.

3. Gestire la tristezza: un massaggio al cuoricino
"Gli adulti non amano vedere i bambini tristi. La tristezza è considerata una specie di tabù".
E' per questo che quando un bambino la sperimenta, tende a chiudersi in se stesso, mentre invece dovrebbe essere aiutato a raccontarla e a condividerla.

Per esempio di fronte a un lutto si tende a dire al bambino che il nonno è partito per un lungo viaggio... Il bambino sperimenterà comunque la tristezza di non vedere più il nonno, in più sarà spaesato dalle false verità che lo circondano.

"Il mondo è pieno di uomini che non sapendo gestire la tristezza diventano violenti, oppure di persone che nascondono la propria tristezza buttandosi nel lavoro o in altro pur di riempire un vuoto" .

Quindi se vediamo nostro figlio triste, anziché cercare di rallegrarlo, abituiamolo a riconoscere questa emozione e aiutiamolo a superarla.

"La cosa migliore è un bel massaggio intorno al suo cuoricino spiegando in modo preciso che cosa pensiamo lo renda così triste! Ad esempio possiamo dirgli: "Piccolino, sei triste perché hai perso il tuo giocattolo preferito, chissà dove si troverà ora? Possiamo andare al parchetto a cercarlo, se poi non lo troviamo, andremo in un negozio a sceglierne uno nuovo assieme".

Così il bambino avverte che la sua emozione viene riconosciuta e compresa,intanto la mano che lo massaggia lo medica proprio là dove sente il "dolore". Inoltre nella narrazione il genitore propone una soluzione per superare il problema.  In questo modo la relazione genitore-figlio ne uscirà rafforzata sul piano della competenza emotiva.
 
 4. Gestire il disgusto: se a tavola non vuole mangiare, provate il gioco del pranzo bendato
"Il disgusto è l'emozione che si prova davanti a qualcosa che percepiamo come pericolosa per la nostra sicurezza".

Le prime manifestazioni di disgusto i bambini le hanno in relazione al sapore del cibo che portano alla bocca. E questa emozione viene espressa in modo esagerata dai piccoli con l'espressione: "Che schifo".

Quando i bambini riportano questa frase a tavola non è tanto perché trovano disgustoso il cibo, quanto perché vorrebbero trovarvi alimenti più saporiti e appetitosi. 

"Come genitori abbiamo il dovere di aiutare i nostri bambini ad apprezzare tutti i gusti e tutti i sapori". Perciò, di fronte a un bambino che a tavola ci dice "non mi piace, mi fa schifo" dobbiamo chiarire che nessun cibo è schifoso in quanto è stato preparato con amore da chi gli vuole bene. E che il nostro corpo ha bisogno non solo di cibi golosi ma anche nutrienti e ricchi di vitamine.

Detto questo, provate con il gioco del pranzo bendato: sistemate nel piatto cinque piccole porzioni di cibi differenti (anche quelli non graditi), poi con gli occhi bendati chiedetegli di assaggiare tutto e indovinare che cosa mette in bocca.

Così il piccolo imparerà che quel cibo che chiamava schifoso può essere, invece, buono.

5. Gestire la paura del buio: il gomitolo di lana
"La paura è un'emozione che ha molti modi di manifestarsi. C'è chi ha paura del buio, chi dei cani, chi del temporale..." Quasi tutti i bambini, nel corso della prima e seconda infanzia hanno molte paure, ma la vicinanza emotiva dell'adulto può aiutarli a superarle. Ed è uno dei primi e più efficaci allenamenti emotivi.

Se un bambino ha una paura, anche molto irrazionale, il genitore deve sforzarsi di entrare nella mente del figlio e comprendere questo terrore. Ad esempio se un piccolo ha paura del temporale, dovete accettare questa emozione, ma anche trovare un modo per gestirla e quindi controllarla.

Se per esempio vostro figlio ha paura del buio e quando va a nanna vuole che gli rimaniate accanto fino a quando si addormenta, provate con il trucco del gomitolo di lana: vostro figlio a letto terrà in mano il filo, mentre voi lo srotolate e vi sedete fuori dalla camera con il gomitolo in mano. Quando il piccolo sente la paura arrivare potrà tirare il filo, in questo modo avvertirà la vostra presenza.

Il filo simbolizza il legame che  c'è con i genitori anche quando sono lontani.

6. Gestire la sorpresa: l'emozione che vi può aiutare a motivare vostro figlio
"La sorpresa è l'emozione che ci coglie quando la vita ci pone di fronte a qualcosa di imprevisto. Può essere una cosa positiva, ma esiste anche il versante negativo".

I genitori possono però usare l'emozione della sorpresa in modo costruttivo. Per esempio dire a un bambino: "Se sarai bravo, poi ti darà una sorpresa" è una frase vincente per aiutarlo a conquistare un traguardo e un obiettivo educativo condiviso. Al piccolo non interesserà tanto l'oggetto ma la sorpresa in se stessa.  La sorpresa è qualcosa che uno non si aspetta e quindi sta a significare: "Ti ho pensato, ti voglio bene, per me sei importante". 

Un gioco che può aiutarvi a motivare il piccolo è il sacchetto delle sorprese.
Se volete che il vostro bambino riesca a conquistare una tappa di autonomia che vi sta a cuore (a nanna presto, lavarsi le mani prima dei pasti, mettere in ordine i giochi...), promettetegli il suo sacchetto della sorpresa una volta che avrà conseguito l'obiettivo proposto. Ogni giorno potete metterci dentro un piccolo regalino che gli consegnerete alla sera se l'obiettivo proposto e discusso con lui è stato conseguito. 

7. La felicità: è un'emozione che va condivisa
"La felicità è un'emozione che ci spinge verso le esperienze più belle della vita".

Anche la felicità è un'emozione che ha bisogno di condivisione. "Se mamma e papà partecipano alla mia felicità, il mondo è un posto bello in cui vivere" pensa il bambino felice. 
 Un bambino che prova tanta felicità si sente disorientato se si trova davanti un adulto incapace di cogliere e condividere con lui questa sua emozione.

"Non solo dobbiamo portare felicità nella vita dei nostri bambini, ma dobbiamo anche riconoscere quando loro sono felici. 
Un suggerimento per creare condivisione è fare dei piccoli album fotografici dei ricordi felici. "Sarà bellissimo sfogliarli insieme ai figli e rivivere di nuovo insieme a loro gli accadimenti in cui avete condiviso quella bellissima emozione".

 L'albume dei ricordi felici sarà un tesoro da conservare preziosamente del tempo.

Autrice: Federica Baroni
Fonte: www.nostrofiglio.it
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mercoledì 11 ottobre 2017

11 ottobre Giornata Internazionale delle Bambine

11 ottobre – Giornata Internazionale delle bambine

Una giornata, nata sei anni fa, per sensibilizzare l'opinione pubblica e riconoscere i diritti di ragazze e bambine. L'11 ottobre ogni anno ricorre la International Day of the Girl Child, la Giornata Internazionale delle Bambine e delle Ragazze.

Tramite la Risoluzione 66/170 del 19 dicembre 2011, le Nazioni Unite hanno deciso di istituire questa giornata al fine di concentrare l’attenzione sui diritti delle più piccole e sulla necessità di promuoverne l’emancipazione.

Il tema principale di questa giornata mette a fuoco il matrimonio delle spose bambine, la maggior parte, infatti, viene fatta sposare prima dei 15 anni. Una violazione dei diritti umani fondamentali che influenza tutti gli aspetti della vita di una ragazza e che coinvolge ogni anno almeno 15 milioni di bambine e adolescenti tra i 10 e i 18 anni. Molte di loro subiscono costrizioni e abusi, e vengono obbligate a sposarsi con degli uomini anche molto più grandi di loro.

Nel 2016, sostiene Terre des Hommes nel suo dossier della Campagna "Indifesa",sono state registrate 21 milioni di gravidanze tra le ragazze di età compresa tra i 15 e i 19 anni che vivono nei paesi in via di sviluppo. Ogni anno, circa 70'000 ragazze muoiono a causa del parto e delle complicanze legate alla gravidanza.

Tra le violazioni dei diritti delle bambine ci sono anche quelle legate ai conflitti e al traffico di esseri umani: sono circa 100'000 le bambine soldato mentre, tra i 2,4 milioni di persone vittime di tratta, le bambine rappresentano il 20%.
In Italia sono diverse le iniziative in occasione della giornata. 

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mercoledì 4 ottobre 2017

Ai bambini serve affetto, no indifferenza

AI BAMBINI SERVE AFFETTO, NO INDIFFERENZA

Durante l’infanzia costruiamo le fondamenta su cui si baserà tutta la nostra vita. Un bambino ha bisogno di amore, accettazione e attenzione. Purtroppo, però, a volte l’ambiente in cui il bambino cresce non è pronto a soddisfare questi bisogni e sprigiona indifferenza, allora le fondamenta saranno segnate da crepe profonde e difetti.

Ci sono tante cose del mondo dei grandi che i bambini non capiscono. Non hanno le competenze cognitive né le risorse emotive per farlo. L’indifferenza o il rifiuto possono causare una profonda sofferenza nei bambini, lasciano una traccia indelebile, ferite che fanno fatica a rimarginarsi.
Molte persone non ricordano con chiarezza le emozioni provate durante l’infanzia. Sono individui che manifestano problemi in età adulta, senza comprenderne l’origine. Questi problemi potrebbero trovare una spiegazione nella loro infanzia segnata dall’indifferenza delle persone che amavano di più. A seguire approfondiremo le cinque caratteristiche delle persone che hanno provato l’indifferenza da piccole.

Le caratteristiche dell’indifferenza

1. Insensibilità, un segno dell’infanzia
L’insensibilità è una delle caratteristiche che permangono nella personalità di chi è stato ignorato durante l’infanzia. In un modo o nell’altro, è una risposta a questa indifferenza da parte della persona che ne è stata vittima. Negli anni dell’infanzia, l’insensibilità alimenta un sentimento di abbandono e scarsa autostima.
In età adulta, l’insensibilità si esprime attraverso l’apatia nei confronti degli altri o della vita in generale. Non c’è entusiasmo né interesse per nulla. Questo perché le persone hanno imparato fin da piccole ad inibire le loro emozioni perché l’ambiente non vi attribuiva un significato.

2. Rifiuto dell’aiuto altrui
Durante l’infanzia, abbiamo grande bisogno di chi ci circonda. Sono tante le situazioni che richiedono sostegno, conforto o consigli. Se da bambini non possiamo contare su questo tipo di aiuto, allora impariamo a non aspettarci niente dagli altri. Di conseguenza, diventiamo “indipendenti ad oltranza”.
Diffidiamo degli altri e del loro aiuto e cerchiamo di farcela con le nostre sole forze. Ci proteggiamo da esperienze emotive che non vogliamo assolutamente ripetere. Non vogliamo aver bisogno degli altri così da evitare di essere traditi. Potrebbe anche capitare l’opposto: chiediamo aiuto per qualsiasi cosa, anche per ciò che possiamo fare tranquillamente da soli.

3. Sensazione di vuoto
La sensazione che manchi loro qualcosa è molto intensa nelle persone che durante l’infanzia sono state vittime dell’indifferenza. Avevano riservato uno spazio alle persone amate, ma queste non l’hanno mai occupato. Per questo ora rimane questo abisso interiore incolmabile.
Questa sensazione di vuoto si trasforma in un disagio costante. Niente è abbastanza completo da colmare queste lacune. Non esiste nessuno in grado di farlo. A volte questa sensazione porta a formulare critiche costanti rivolte a se stessi e agli altri.

4. Perfezionismo
La mancanza di amore e di attenzione durante l’infanzia ha molteplici effetti sulla percezione di sé. Una persona può sviluppare un pensiero secondo cui ciò che fa non è abbastanza da essere apprezzato. Nei bambini questo si traduce in un atteggiamento eccessivamente prudente o radicalmente insopportabile.
Da adulte, le persone ignorate da piccole diventano estremamente perfezioniste. Questa rigidità è una risposta al sospetto inconscio per cui non stanno facendo tutto ciò che possono o devono fare. In fondo, continuano ad essere bambini che vogliono essere apprezzati per quello che fanno.

5. Ipersensibilità al rifiuto
Quando il bambino percepisce di essere ignorato, non si sente degno, crede di essere insignificante. In altre parole, la sua esistenza non conta nulla per gli altri e, quindi, inconsapevolmente, giunge alla conclusione che qualcosa in lui non vada. Manifesta sensazioni di inadeguatezza o illegittimità.
L’eco di questa indifferenza è un’ipersensibilità alla critiche altrui. Qualsiasi segnale di disapprovazione viene interpretato come una minaccia. Si rinnova l’eco dell’infanzia che suggeriva “qualcosa non va in te”. Ovviamente tutto questo risulta molto doloroso e difficile da sopportare.

Dal punto di vista neurologico e psichico, l’infanzia è un periodo della vita molto decisivo. Questo non vuole dire che le brutte esperienze vissute fin da piccoli siano irrimediabili, ma che lascino una traccia molto profonda per il resto della vita. Una persona può liberarsi in gran parte di questi pesi, ma dovrà lavorarci molto ed eventualmente richiedere l’aiuto di un professionista.
Fonte: lamenteemeravigliosa.it
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mercoledì 20 settembre 2017

Adolescenti e smartphone

ADOLESCENTI E SMARTPHONE

Recentemente, un po’ stanco di tutto, ho rinunciato al mio lavoro in una biblioteca straordinaria, ho cambiato il numero del mio cellulare, quello per WhatsApp, ho smesso di guardare Twitter, e sono andato a nascondermi su un’isola remota. Con l’accesso a internet, sì, ma lontano dalla Colombia e dal mio mondo.
Improvvisamente, questi cambiamenti, ma soprattutto il silenzio dello smartphone, o di alcune sue funzioni, mi hanno riconnesso con il mio vecchio mondo: quello della lentezza della lettura e della cura nello scrivere.
Mi sono dedicato a migliorare il mio francese (ancora molto incerto) e a tradurre parola per parola un libro che amo da una vita: il Candide di Voltaire. Poiché la prima parte del libro ha 30 capitoli, e dovevo restare 30 giorni sull’isola, ho deciso che ogni mattina avrei lasciato la stanza solo dopo aver tradotto un capitolo. Ho potuto farlo grazie a quattro ore di concentrazione, visto che la maggior parte dei capitoli è breve. Ogni volta mi sono premiato con la brezza e il sole di mezzogiorno, un vino bianco fresco e un’ora di nuoto in mare.

Cambiamenti scioccanti
Sono ormai un uomo quasi anziano che cerca di tenere il passo con le straordinarie novità elettroniche del mondo contemporaneo, né apocalittico né integrato, secondo la vecchia dicotomia di Umberto Eco. Ma adesso sono tornato nel mio mondo tra le montagne, ho letto (online) un articolo sui giovani nati in questo secolo, o alla fine di quello passato, e sono rimasto scioccato nell’apprendere dei cambiamenti psicologici causati in loro dallo smartphone.
L’articolo è pubblicato sul numero di settembre dell’Atlantic. L’autrice, Jean Twenge, è una psicologa che ha affrontato il crescente narcisismo delle nuove generazioni: nel 2007 ha scritto Generation me. Perché i giovani di oggi sono più sicuri di sé, hanno più diritti e sono più infelici che mai, e l’articolo è un estratto del suo nuovo libro, iGen, un lavoro sui postmillenial, che in percentuali altissime vivono molto più attaccati al telefono che alla realtà.

Si tratta di bambini cresciuti con uno smartphone in mano e senza ricordi di un mondo senza internet
D’un tratto, circa cinque anni fa, quando più della metà degli statunitensi aveva già uno smartphone, Twenge, che è anche un’insegnante, aveva notato dei cambiamenti improvvisi nei comportamenti, nelle interazioni sociali e negli atteggiamenti dei giovani, basandosi su statistiche pubblicate negli ultimi decenni. Si tratta di bambini e adolescenti cresciuti con uno smartphone in mano, e che non hanno ricordi di un mondo senza internet. I cambiamenti sono evidenti in tutte le classi sociali e in tutti i gruppi di popolazione degli Stati Uniti. Per loro, quasi tutta la vita è filtrata attraverso lo smartphone e i social network.
Non tutto è negativo: questi bambini tranquilli nella loro camera, con lo schermo blu riflesso negli occhi, hanno meno incidenti, sono poco interessati all’alcol, non sono ossessionati dal saper guidare, si uccidono meno tra di loro, ma hanno molti più problemi mentali, soffrono di più attacchi di depressione e si suicidano di più. Non sembrano molto felici.
Per quanto riguarda i rapporti personali, piuttosto che “uscire con qualcuno” chattano, e oggi s’incontrano sempre meno in uno spazio reale. Anche il sesso “reale” è meno frequente rispetto alle generazioni precedenti. In qualche modo sembrano non lasciare l’infanzia: gli e le iGen sono puerili in tutti i loro pensieri, perché l’adolescenza comincia più tardi. Dormono anche meno del necessario e si alzano e vanno a letto con l’ossessione di sapere cos’è successo nel frattempo sui social network.




Lo studio rileva una decisa correlazione tra le ore passate davanti allo schermo (soprattutto sui social network) e la depressione. E sono le ragazze a sentirsi più spesso escluse e isolate dai loro coetanei. L’unico consiglio di Twenge ai genitori degli iGen è quello di costringere i figli a spegnere o a mettere da parte il telefono molto più a lungo e a impegnarsi in qualsiasi altra attività.
Fonte: www.internazionale.it
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mercoledì 21 giugno 2017

Quello che vi siete persi

QUELLO CHE VI SIETE PERSI...
...il blog va in vacanza

E' giunto il momento di sospendere l’attività del blog, che ripartirà a settembre a pieno regime. Per chi volesse recuperare i contenuti pubblicati in questa prima metà dell’anno basterà cercare nell'archivio blog o tra i post più popolari (li trovate sul lato destro della home).

Alcuni consigli:

Adolescenti attratti dai giochi violenti e della morte;

Lettera di un adolescente ai suoi genitori;

Un kit pedagogico per le neomamme;

Insegnare ai bambini l'ABC delle emozioni;

Lettera ad un figlio;

Lettera di una mamma ai bulli che perseguitavano il figlio;

Alike, il cortometraggio che ogni genitore dovrebbe vedere;

L'importanza di trovare dei motivatori

Buona lettura e buone vacanze.


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mercoledì 14 giugno 2017

In Danimarca si va a lezione di empatia

IN DANIMARCA SI VA A LEZIONE DI EMPATIA
A lezione di empatia. Questo succede nelle scuole danesi: in Italia la situazione è diversa, ma non mancano esempi virtuosi. Ne abbiamo parlato con il dottor Mario Di Pietro, esperto di Educazione razionale emotiva.

Nelle scuole in Danimarca, oltre alla matematica e alle altre materie tradizionali, i bambini vanno anche a lezione di empatia. Ogni settimana gli studenti dai sei ai sedici anni hanno a disposizione la Klassens tid, ovvero un momento in cui tutti possono condividere emozioni, problemi personali o difficoltà per ascoltare consigli e trovare soluzioni con l’aiuto dei compagni e dell’insegnante.
Il tutto è reso ancora più piacevole dalla Klassens time kage, una torta al cioccolato che i ragazzi preparano e portano in classe a turno. L’obiettivo? Creare un’atmosfera piacevole, chiamata “hygge”, e aiutare i giovani a far crescere la propria empatia – dal greco en pathos, “sentire dentro” – e quindi la loro capacità di percepire e condividere le emozioni altrui in un clima di collaborazione, con tutti i benefici che ne conseguono.
Il valore di questo approccio non è solo intuibile ma è addirittura dimostrato. Ad esempio, un notevole calo del livello di empatia tra i giovani statunitensi di oggi rispetto a quelli degli anni Ottanta-Novanta è stato registrato da uno studio dell’Università del Michigan e questo è coinciso con un aumento dei problemi di salute mentale e depressione degli stessi.
Per capire come la scuola italiana prenda in considerazione questa tematica ne abbiamo parlato con il dottor Mario Di Pietro. Psicologo e psicoterapeuta, negli anni Novanta portò in Italia l’Educazione razionale emotiva, procedura psicoeducativa che “educa la mente per metterla al servizio del cuore” e aiuta ad acquisire consapevolezza delle proprie emozioni, superando, in modo costruttivo, pensieri negativi che alimentano emozioni dannose.
Da molti anni il dottor Di Pietro si adopera proprio in ambito scolastico affinché questa procedura possa essere applicata anche alla didattica con diversi obiettivi, tra cui: favorire l’accettazione di se stessi e degli altri; facilitare il superamento di stati d’animo spiacevoli; aumentare la tolleranza alla frustrazione; favorire l’acquisizione di abilità di autoregolazione del comportamento; incentivare la cooperazione in alternativa alla competizione.
Oltre a essere psicologo, psicoterapeuta e docente il dottor Di Pietro è ancheterapeuta cognitivo-comportamentale. Specializzatosi a New York con Albert Ellis (fondatore della terapia razionale emotiva comportamentale) è autore di diversi testi, tra cui L’Educazione razionale emotiva e L’Abc delle mie emozioni.
Sappiamo che nelle scuole danesi l’empatia e le emozioni sono materia scolastica. In Italia esiste qualcosa del genere?
Sì, anche in Italia esistono sperimentazioni di questo genere ma non così su vasta scala come in Danimarca. Da noi si tratta più che altro di realtà isolate e legate alla lungimiranza dei dirigenti scolastici. Io negli anni ho seguito e ispirato vari progetti nelle scuole. Anche l’Istituto superiore di Sanità se n’era interessato e aveva finanziato una ricerca su questo.
Ci può dare una misura della diffusione di questi progetti in Italia?
Io formo circa cinquecento insegnanti l’anno sulle tematiche dell’Educazione razionale emotiva. Di recente sono andato anche in Abruzzo, dove hanno avuto problemi di resilienza coi bambini e, attualmente, sto seguendo un progetto a Pordenone legato a una rete internazionale sponsorizzata anche dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Come mai in Danimarca la situazione è così differente dalla nostra?
In Danimarca c’è un retroterra culturale diverso, molto ricettivo. Da loro non c’è un clima politico e culturale così caotico e selvaggio come da noi e hanno molto più senso civico. Perciò lì c’è terreno fertile per certe cose. Qui da noi, specialmente in certi contesti, per esempio al Sud, esistono problematiche sociali ben più impellenti da risolvere. Questo è un lusso che si possono permettere solo società più evolute.
Gli insegnanti come applicano in classe le procedure dell’Educazione razionale emotiva?
Attraverso percorsi mirati o applicandola alle varie discipline. Per esempio l’insegnante di lettere può aiutare i ragazzi a espandere il loro vocabolario emotivo; l’insegnante di scienze può spiegare quali sono i segnali fisici che il nostro corpo ci trasmette quando proviamo certe emozioni; quello di studi sociali può parlare del controllo della rabbia nell’interazione. Ci sono varie possibilità di introdurre nell’ambito delle discipline curriculari argomenti che riguardano l’Educazione razionale emotiva, però alla base ci dovrebbe essere un percorso strutturato che richiede diverse settimane. Se poi si vogliono fare le cose in modo completo, il percorso andrebbe ripetuto per tre anni consecutivi, perché, come qualsiasi nuova competenza anche questa richiede una reiterazione per essere consolidata.
È davvero così importante imparare a essere empatici?
La mancanza di empatia deriva da una visione negativa della realtà. Chi non prova empatia ha delle modalità di pensiero distruttive nei confronti dell’altro, per questo è incapace di provare e sentire quello che l’altro può provare. Però, attenzione, identificarsi con l’altro non è sempre utile perché può togliere le energie per aiutarlo. All’empatia deve unirsi la compassione che significa proprio “soffrire con l’altro” per aiutarlo a superare la sofferenza stessa.
Tutti possono imparare a essere più empatici e compassionevoli?
I fattori in gioco sono sia temperamentali che ambientali. Certe persone hanno una maggiore predisposizione all’empatia e quindi faticano meno ad apprenderla e applicarla, chi è meno predisposto dovrà impegnarsi di più, ma tutti possono migliorare.
Fonte: lifegate.it
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