PERCHÉ NON HO DENUNCIATO
Qualche
giorno fa è stato il Denim Day, la
giornata istituita 15 anni fa dall'associazione Peace Over Violenze in risposta alla sentenza della
Cassazione che in Italia assolse un uomo dallo stupro di una ragazza perché
indossava un paio di jeans. E in questa giornata abbiamo lanciamo la sfida di
pubblicare articoli con lo stesso titolo: Perché non ho denunciato.
E cominciamo facendolo in prima persona sui blog
Nadias (Fatto)
Bettirossa (il Manifesto)
Lipperatura (Repubblica)
La27ora (Corriere della Sera)
e Il corpo delle donne
L’iniziativa è promossa da un
gruppo di giornaliste che invitano tutte le altre, giornaliste e blogger, a
fare proprio il titolo e l’immagine. E invita tutte le altre donne a
raccontarsi rispondendo a: Perché non ho denunciato
Hanno già aderito Gender,
genere, genre … ma non solo , Anarkikka
Le adesioni che stanno arrivando a #PerchéNonHoDenunciato
e 365 #DenimDay
Giorgia Vezzoli su Vita
da streghe
Cristina Obber su Non
lo faccio più
Claudia Sarritzu su Globalist.it
Giulia Vola su Magazine
delle Donne
Angela Gennaro su Huffington
Post
su Twitter: #PerchéNonHoDenunciato
#DenimDay
Leggete le loro storie, questa è la mia
Mica posso rovinare una famiglia. E poi come
guardo sua moglie. Lei lo sa, se è successo con me, sarà già successo altre
volte, lei lo sa e non vuole vedere. No, e poi cosa dico in tribunale? Dormivo.
Non posso montare tutto sto casino, tutte ‘ste famiglie convolte. Ma che dico,
proprio io a “salvare le famiglie”. Quella notte giravo per Milano in auto come
una pazza… Ero scappata, avevo preso l’auto e l’unica cosa che sapevo fare era
girare e parlarmi. Come, proprio io a pormi il dubbio? Denuncio? Ebbene sì.
Proprio a me era successo e proprio io non sapevo cosa fare. Mi ero svegliata
in salotto. Avevo aperto gli occhi e la sua faccia sulla mia. Peggio, le mani
avevano raggiunto gli slip. Il tempo di capire. Non so quanto ho impiegato. Non
lo so proprio. Immagino un fulmine, forse alcuni interminabili secondi per
alzarmi, prendere chiavi e borsa. E correre. Dove?
L’auto mi è
sembrata il posto dove pensare. Non correvo. Giravo piano. Parlandomi. Non so
se a voce alta. O con la voce della mente, quella che uso per raccontarmi
storie. Costruivo immagini, situazioni, parole. Mi raccontavo in tribunale, a
dire che sì, mi capita di addormentarmi, anche a casa di amici. A volte crollo
per stanchezza o perché le notti prima ho lavorato. E poi che altro avrei
potuto dire. Amici, che frequento normalmente. Certo. Quasi parenti, i genitori
reciproci si conoscono, abbiamo mangiato insieme tante volte. Ogni volta che
vedo i miei mi chiedono come stanno, come stanno i bambini, come stanno il papà
e la mamma. Consenziente? E lì avrei insultato avvocati e giudici. Certo, avevo
una gonna. Bianca, stretta, un tubino bianco, le gambe abbronzate. Sul divano
la gonna sale? E allora, giudice si rende conto di che sta dicendo? La gonna
sale e quello ci infila le mani. Giusto? Consenziente perché l’ho lasciato
andare avanti? Giudice, dormivo. Lei è una donna libera, diciamo disinvolta… E
allora? Quanto avrei retto quelle domande prima di sclerare. Sclerale guardando
la mia amica, la moglie. Cosa avrebbe fatto, detto? Quanto l’avrei ferita?
Eravamo “troppo” intimi? Certo giudice, noi zitelle libere e disinvolte abbiamo
molte relazioni intime, qualcuna sentimental-sessuale e poi tanti rapporti
intimi, le chiamano famiglie sostitutive. Sesso? Lo faccio, certo. Quando
voglio io.
Sono arrivata a casa che era già luce, ma
senza una decisione. Una doccia. Lunghissima e con il crine che non uso mai.
Dovevo lavare, lavare me e quanto mi era capitato. Non so a che punto arriva
una telefonata. Un amico artista, di passaggio a Milano. Mi sente stravolta. E
comincio a raccontare, dire tutto quello che mi ero detta nella notte. Sono
certa, però, che della denuncia non ho parlato. Il dubbio non era archiviato.
Restava una lacerazione, ma assente dalle parole. Un po’ al telefono e poi al
tavolino di un bar sottocasa. L’amico, pure l’altro era un amico, oh se lo era,
mi fa parlare, ripete che sono una tosta. Mi dice la sua stima. Un elenco di
pregi sulle mie forze. E mi è chiaro oggi come servissero in quel momento. Non
abbastanza per andare in questura. Mi racconta qualche suo piccolo guaio, i
desideri futuri. Parliamo del suo ultimo progetto, ritratti alla gente
qualunque accompagnati alle loro storie, in poche righe. Erano i primi anni del
2000. E l’idea di entrare nell’umanità del suo cosmo è arrivata poco dopo il
fatto.
Sono entrata
in Paese reale da qui all’eternità di Piermaria Romani, nella
ricostruzione di un paese reale come espressione dell’arcano contatto cosmico
che tutti lega… con i nostri lutti, le nostre rabbie, amori, paure. Non ho
denunciato il fatto. A che punto lo avrebbero considerato stupro? Quanto avrei
dovuto spogliarmi dei mie orgogli perché venisse riconosciuto? Quanto avrei
scassato gli equilibri di altre persone? Non ho denunciato alla questura, l’ho
fatto dalla Biennale di Venezia, da Palazzo Reale, da muri di festival dove
sono passate migliaia di persone. Il mio volto, il mio nome, quello che mi era
successo, tra tanti altri. E senza nessuno che mi giudicasse. Una denuncia
corale. Ma silenziosa. Non è giusto, lo so. È bastato alle mie ferite. Non alla
collettività e alla civiltà.
FONTE:
http://27esimaora.corriere.it/articolo/perche-non-ho-denunciato/?cmpid=SF020103COR
Paidòs Onlus
dalla
parte dei bambini, SEMPRE
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