I RAGAZZI IN COMUNITÀ' CONOSCONO IL SAPORE AMARO DI ATTESE E RESTRIZIONI
“È così noioso restare a
casa…”.
Non si può uscire, non si
possono vedere gli amici… che noia.
Concordo vivamente che
restare a casa sia noioso; non potersi godere il sole, un bel cocktail, la
corsa al parco con gli amici, lo shopping al centro.
Ah stare a casa… che tortura…
Concordo vivamente, penso da
vera egoista. Poi però mi dico che c’è chi una casa, uno spazio proprio e
privato non lo ha. Ci sono i miei ragazzi per esempio… Beh loro, la propria
casa cercano di dimenticarla o provano, con uno sforzo sovrumano, a immaginarne
una…
Cosa vuole essere questa,
commiserazione o forse pena? No, oggettività.
Chi momentaneamente risiede
in una comunità educativa sa bene cosa significhi essere ristretto; sa bene
cosa significhi attendere che qualcuno prenda una decisione che lo faccia uscire
da quella maledetta e noiosa prigionia. C’è chi ha di suo solo un pigiama
rattoppato, dei vestiti, dei trucchi, un pallone e uno spazzolino da denti.
Magari c’è chi non ha una mamma e un papà, e c’è chi sarebbe meglio che non li
avesse proprio perché… vedete gli orchi abitano questo mondo, tanto quanto i
virus, e per i nostri ragazzi spesso hanno le sembianze di comuni genitori,
oppure somigliano alla miseria, oppure ancora all’ignoranza… sono pur sempre
mostri.
I ragazzi che mangiano,
dormono, studiano, vivono in comunità sanno spesso cosa sia la noia di non
poter parlare con tutti, di pazientare, di scontrarsi con altri con cui bisogna
convivere forzatamente.
Oggi a lavoro i ragazzi hanno
disegnato, hanno cucinato un dolce, hanno infornato una pizza, hanno
messaggiato con qualche compagno o con un amore lontano e nascosto, chissà.
Oggi a lavoro i ragazzi si sono annoiati, dopo la partita a Monopoli, dopo aver
rivisto quel film in tv; eh sì, anche qui ci si annoia. Uno di loro ha chiesto
se l’udienza che avrebbe dovuto avere sarà spostata a quando; ho letto sul suo
viso, l’espressione di “che ne sarà di me?”. Solitamente in questi casi un
abbraccio, una carezza può servire; soprattutto quando l’incertezza del futuro
si materializza con un’email che avvisa della sospensione di tutte le udienze.
Ora non si può dare una pacca sulla spalla, dobbiamo mantenere le distanze, ci
si accarezza con lo sguardo.
Fortuna, mi dico, che sono
abituati a non avere contatto umano; ciò rende tutto più facile, di questi tempi.
Beh si è capito no? Mi
presento: sono un educatore. Oggi sono di turno io. Nella borsa ho un po’ di
dvd sgraffignati a casa, qualche ricetta da fare, una scatola di giochi da
tavola e la voglia che il tempo passi con un po’ di leggerezza.
“Ma almeno tu esci…”, mi
dicono, sì è vero, esco. Prendo la macchina, indosso la mia mascherina di
fortuna e vado a lavoro. Prima di mettere in moto, controllo di nuovo il mio
conto corrente. Rivedo ancora una volta la medesima cifra; non cambia da quasi
cinque mesi… il sociale non è mai una cosa semplice da comprendere. Magari la
benzina la metterò domani ma domani, ho letto, forse ci sarà lo sciopero dei
benzinai… chiudo gli occhi e mi dico “andrà tutto bene”… continuo a ripetermi
questa frase da ben prima dell’emergenza pandemica.
Quando arrivo fuori dalla
comunità educativa dove lavoro, faccio un respiro, suono il campanello e c’è
chi mi viene incontro, sorridendo. “Hai portato un nuovo gioco?!”; c’è chi
invece sfugge al mio sguardo e va in camera sua, trascinandosi appesantito dai
pensieri. “Oggi non deve essere stata un gran giornata per lui” mi dico.
Entro e chiudo fuori dalla
porta i miei timori sull’evolversi dei contagi, la mia paura per la mamma che è
infermiera e continua a lavorare, la mia paura per la nonna, sola in casa ma io
non posso vederla perché potrei essere pericoloso per lei… La paura di non
riuscire a reggere lo sguardo dei ragazzi, le loro domande e le loro
preoccupazioni. Alle volte, sapete, si sorprendono nel vedere un adulto
pensieroso o triste… secondo loro, gli adulti non piangono; non fanno cose così
“da deboli” insomma. “No”… glielo dico spesso “gli adulti piangono, temono…
solo che la maggior parte di loro lo fa di nascosto. Non siamo mica coraggiosi
come i bambini”.
Tutti i miei pensieri
rimangono, pesanti come un enorme baule in legno massiccio, fuori
dall’ingresso; qui in comunità non entrano, non c’è posto per loro. Li
riprenderò quando smonterò dal turno e me li riporterò a casa. Ho ricevuto un
messaggio sul cellulare oggi: c’è chi ha paura che tra gli evasi dalle carceri
ci sia uno fra quegli orchi che un tempo trasformava le notti stellate, quelle
che solo i bimbi possono disegnare in sogno, in incubi senza luna. Rispondo che
non c’è da avere paura, che bisogna restare a casa. Sembro così sicuro, lo so…
ma la verità è che penso a quanta paura, nella stessa situazione, avrei io.
Cerco di essere rassicurante, scrivo “Andrà tutto bene”; inizia a sembrare
piuttosto indigesta questa frase, persino nello scriverla provo una fitta allo stomaco.
Lascio il telefono nella
stanza degli educatori. Adesso si pensa solo ai ragazzi. Ora devo giocare,
cucinare, rimproverare chi non si è fatto la doccia o non si è fatto il letto.
Devo parlare con quel ragazzo che ha quasi compiuto 18 anni e ha un decreto
sulle spalle che lo invita a tornare a casa al compimento della maggiore età…
Mi dico “ma quale casa?”. Blocco subito questo pensiero nella mia mente ed
entro nella stanza dove c’è lui. Mantengo la distanza, che di sicuro non ci
aiuta a comunicare. Ancora una volta non mi guarda, scorre distrattamente le
notizie sul telefono. A lui non dirò che andrà tutto bene, questa cosa lo
farebbe arrabbiare… farebbe imbufalire anche a me.
“Ho portato la cioccolata, ce
la potremmo cucinare sai, bella calda… fuori nevica”. Parlo ma nulla… silenzio.
“Ho una nuova canzone da farti sentire, parla di un adolescente arrabbiato che
vorrebbe trasformare il proprio educatore logorroico in uno scarafaggio”. Per
la prima volta, oggi, il suo sguardo si posa su di me .. ride. Riesco a
portarlo in cucina, beviamo una cioccolata tutti assieme. C’è chi dei ragazzi
litiga per il possesso del telecomando, chi canticchia… Bisbiglio nell’orecchio
che non importa del decreto… ci inventeremo qualcosa assieme: un lavoro, un
percorso di studio, un’occupazione…qualunque cosa…
“Non ti lasceremo così…
dopotutto questa è casa tua, no? Sai che il professor Silente in Harry Potter,
con fare molto più saggio del mio, confortò il suo alunno ribadendo che un
aiuto sarebbe sempre stato dato ad Hogwarts, a chi lo avrebbe richiesto?
funziona così anche qui ma senza gufi”. Io non sono un mago… sono solo un
educatore e lui non è un ragazzo prodigio ma un bambino cresciuto troppo in
fretta. Sarà la cioccolata, sarà che nevica, sarà che abbiamo iniziato a
giocare e mi stanno distruggendo; tra un po’ la mia pedina sarà tolta dal piano
di gioco perché avrò perso… di nuovo. La casa ora è un po’ più calda. Non
durerà fino a domani… lo so già. “Domani penseremo a qualcos’altro”.
È noioso stare a casa… Già…
abbiamo tutti uno pseudo motivo valido per lamentarci. Stare a casa con i
propri cari o con qualcuno che prepari una focaccia o un dolce… beh pensate
che… c’è chi non ci dorme la notte per questo…
Ma forse è meglio così… a
rigor di logica ha meno motivi per lamentarsi. Dopotutto non ha idea di cosa
significhi… una casa.
Si cerca un pretesto per
uscire, si cerca una scusa per evadere, non si sa attendere…
I miei ragazzi invece sono
abilissimi nel destreggiarsi nell’attesa. Loro attendono decreti, che però non
arrivano dal governo. I loro decreti provengono dal tribunale e non prevedono
la chiusura di strade o parchi… i loro decreti raccontano storie. Raccontano di
quel genitore condannato in via definitiva per le violenze commesse in
famiglia, raccontano dell’affidamento del minore ai servizi sociali
territoriali, dell’impossibilità di rientrare presso la propria abitazione per
motivi igienico-sanitari, o raccontano della fuga di quella genitrice con il
suo nuovo compagno.
Quando arriva un decreto qui
in comunità mi chiedo sempre come si possa spiegarlo, con tutti i suoi
altisonanti paroloni giuridici, a un ragazzo… e a un bambino?
Ci si lamenta della focaccia
che a casa ha un sapore banale, dell’uscita serale e dell’aperitivo mancato…
Mi chiedo se queste cose
manchino a un ragazzo cresciuto dalla cruenta strada, se manchino al bimbo
piccolo ritrovato, per caso, nell’appartamento logoro di quella prostituta e
del suo compagno spacciatore…
Non saprei.
Di sicuro l’aperitivo o la
settimana bianca mancano anche al ragazzo che studia Platone con me e mi chiede
a cosa serva pensare, se poi gli adulti non pensano e scappano di casa per
andare dalla parrucchiera o a correre quando in giro c’è la possibilità di
infettarsi e contagiare innocenti.
“C’è bisogno di pensare
invece” ribadisco, “c’è bisogno perché tu sei in gamba, non sei come loro”.
Una vita normale manca a
tutti… Già… Soprattutto a chi non l’ha mai vissuta.
Lamentarsi… ah arte sublime.
Io vado a lavoro, cerco di
stare attenta se sbadiglio, se starnutisco, se tossisco. I ragazzi hanno già la
salute e il cuore sovraccarico di problemi e pensieri; faccio attenzione per
loro, per me, per chi amo.
Oggi un bimbo mi ha chiesto
tutto contento se avessi portato un gioco nuovo… era il Monopoli del 1997. Per
lui è nuovo e tanto gli basta per rendere viva la giornata, in un tempo così
morto.
Il mio collega è venuto a
darmi il cambio, il suo baule di pensieri è parcheggiato fuori assieme al mio.
Ci salutiamo con lo sguardo, non serve parlare… “Andrà tutto bene, amico mio”
lo sanno dire anche gli occhi. Odo il più piccolo della comunità che corre come
un pazzo… “Facciamo la Pizza!!! ho visto gli ingredienti nella busta sii… io la
voglio strapiena di mozzarella”. Basta un occhiolino che sta per “Fai un buon
turno” e mi congedo dal collega. Saluto tutti, esco fuori dalla porta mentre
pregusto quella vocetta stridula che ha il sapore della pizza più buona del
mondo.
Riprendo il mio baule, metto
la mascherina e torno a casa. I miei cani mi accolgono scodinzolando, si sente
il profumo dei taralli, la mamma è vicino al forno; li controlla con lo
sguardo, come se questo li facesse cuocere meglio; mio padre è seduto sulla sua
poltrona, guarda il telegiornale che parla di cose brutte. Mi godo la scena,
penso confortato: “Ah, quant’è bella casa mia!”.
Cerco un nuovo film, un nuovo
gioco, una nuova attività da fare domani. I miei ragazzi per ora hanno una
casa. Non durerà per sempre, andranno via, ne arriveranno altri… Domani vorrei
che sentissero anche loro questo calore che avverto mentre osservo la mia
quotidianità… noiosa… ma che sa di buono, come i miei ragazzi.
E poi viene fuori questo
pensiero pensato a 4 teste con le ragazze e l’educatrice Stefania:
“Il tempo non è più tempo, è
fermo nell’angolo, cupo e appassito, ma intanto io vivo, e riscopro me stessa,
sono insieme alle stesse persone di sempre eppure mi sembrano belle pur se
siamo come in prigione, riusciamo a vivere in comunione anche se la morte fa
paura, stare insieme è la nostra cura. Spero presto finirà, ma finalmente il
valore di un abbraccio si capirà”. (B., A.M., P. S.)
Chiara Pittari
Chiara Pittari è educatrice professionale nelle comunità per minori
della cooperativa sociale Paidòs
a Lucera (Foggia).
Fonte: www.animazionesociale.it
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