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mercoledì 16 novembre 2016

Educhiamo alla generosità

EDUCHIAMO ALLA GENEROSITA'
Almeno uno su dieci italiani, cioè sei milioni, pratica il volontariato. Si occupa di estranei senza essere pagato. 

«Che nessuno venga a voi senza ripartire migliore e più felice. Siate la vivente espressione della bontà di Dio. Bontà sul vostro volto, bontà negli occhi, bontà nel sorriso, bontà nella vostra accoglienza piena di calore». 
(Madre Teresa)


Quando ci fu il terribile attentato delle torri gemelle a New York, il mondo intero seppe in pochi minuti ciò che stava accadendo. Alcuni, però, lo seppero in ritardo. C'era una tribù nel Kenya meridionale, in una zona delle più povere e lontane dalla tecnologia del mondo occidentale, che lo ha saputo con sette o otto mesi di ritardo. Non so come queste persone, che non conoscono il nostro mondo se non per sentito dire, possano raffigurarsi la grande città americana e la catastrofe che l'ha colpita. Ma hanno capito che è stato un avvenimento tragico. Abbigliati nelle loro vesti multicolori, hanno tenuto una riunione solenne e hanno deciso che avrebbero mandato quanto di più prezioso avevano agli abitanti di New York - sedici vacche - per aiutarli in quel momento di difficoltà. Queste persone che avevano conosciuto i tormenti della fame erano pronte a privarsi del loro cibo per offrire solidarietà ad altri esseri umani che non avevano mai incontrato. 

La generosità è la virtù del dono, della gratuità, risponde solo alla legge dell'amore e della solidarietà. Supera anche la giustizia, che pure è una virtù importante. È la capacità di donare denaro, ed è la parte più facile, e se stessi, la propria vita, ed è il volontariato e il sacrificio.
La solidarietà, base della generosità, significa sentirsi parte di qualcosa di più grande. È coesione, interdipendenza, comunione d'interessi e di destino. È partecipare ad una medesima storia con altre persone. Noi tutti abitiamo il medesimo pianeta, siamo ecologicamente solidali. 

Esiste un interesse comune, ma la generosità va ancora più in là.
Per la strada camminavano mamma e bambino. Il bambino aveva in mano un dolce. Passarono davanti ad una povera donna che stendeva la mano verso i passanti. Accanto a lei stava accucciato un ragazzino sporco, infagottato in abiti unti e troppo larghi per lui. Il bambino, sempre tenendo la mano della mamma, si fermò e fissò sconcertato il ragazzino. Poi guardò il dolce che aveva in mano e la mamma, quasi per chiedere il permesso. La mamma acconsentì con un leggero movimento della testa. Il bambino tese la manina verso lo zingarello e gli donò il dolce. Poi ripartì trotterellando accanto alla mamma.
Un passante, che aveva assistito alla scena, disse alla mamma: «Adesso gli comprerà un altro dolce, magari più grosso?».
La mamma rispose semplicemente: «No».
«No? Perché?».
«Perché chi dona rinuncia». 

Essere generosi è rischiare. La generosità è proprio questo: dare ciò che ci è più caro. È un atto che ci trasforma. Dopo saremo più poveri, ma saremo più ricchi.
Ciò che abbiamo, o che crediamo di avere, ce lo teniamo stretto: una persona, una posizione sociale, un oggetto, la nostra sicurezza. E in questo trattenere c'è paura. Possiamo donare solo ciò che possediamo, a patto di “non essere posseduti” dalle nostre cose. Per questo la generosità è sempre un gesto profondamente libero. 

Essere generosi è condividere risorse, emozioni, se stessi.
La generosità nasce dalla libertà e dalla volontà di usare bene la propria libertà. Per questo la generosità è questione di volontà. È l'esatto contrario dell'egoismo.
Ognuno di noi - questa è la natura della nostra vita - possiede beni che per altri sono d'importanza vitale, o perlomeno di un certo interesse: denaro, tempo, risorse essenziali come acqua o cibo, la capacità di dare stima e attenzione e via dicendo. Li vogliamo condividere oppure no? La nostra vita è congegnata proprio così, come un gioco di carte in cui ognuno dei giocatori ha delle carte che interessano agli altri, e gli altri hanno delle carte che sono vitali per lui.
Inoltre la vera generosità è consapevole. È un dare che non è dettato da sensi di colpa, da un debito o dal desiderio di creare dipendenza. È un dono libero che genera a sua volta libertà. Questa è gentilezza nella sua forma più bella. 

Essere generosi è la gioia di far felice un altro.
Tutti vogliono amare ed essere amati, la strada che porta all'amore si chiama generosità.
La generosità porta verso gli altri e può avere diversi nomi: unita al coraggio diventa eroismo; unita alla giustizia diventa equità unita alla compassione diventa benevolenza; unita alla misericordia è indulgenza. Ma il suo più bel nome è anche il suo segreto, che tutti conosciamo: insieme alla dolcezza, si chiama bontà.

IL CHICCO DI FRUMENTO
Un chicco di frumento si nascose nel granaio.
Non voleva essere seminato.
Non voleva morire.
Non voleva essere sacrificato.
Voleva salvare la propria vita.
Non gliene importava niente di diventare pane.
Né di essere portato a tavola.
Né di essere benedetto e condiviso.
Non avrebbe mai donato vita.
Non avrebbe mai donato gioia.
Un giorno arrivò il contadino.
Con la polvere del granaio spazzò via anche il chicco di frumento.

IL MANIFESTO DELLA GENTILEZZA
Noi crediamo che in un mondo che tende alla disumanizzazione, abbiamo più che mai bisogno di gentilezza. Verso noi stessi, gli altri, il pianeta.
Noi crediamo che essere gentili voglia dire essere rispettosi nei confronti di tutto quello che ci circonda: persone, animali ambiente.
Noi siamo convinti che l'era dell'aggressività e del “ciascuno per sé” sia tramontata.
Noi crediamo che sia arrivato il momento di affrontare la vita con più dolcezza, più comprensione, più attenzione.
Noi crediamo che essere gentili significhi essere parte attiva di un processo di miglioramento dell'esistenza di tutti.
Noi crediamo che la gentilezza sia una forza interiore e una forma alta di intelligenza.
Noi crediamo che la gentilezza sia una capacità e che come tale si possa apprendere.
Noi crediamo che la gentilezza sia contagiosa e, di conseguenza, trasmissibile.
Noi siamo convinti che la gentilezza debba concretizzarsi in piccole azioni.
Noi crediamo che tanti piccoli atti di gentilezza cambieranno il mondo.

Autori: Ferrero- Peretti
Fonte: B.S. Giugno 2016

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mercoledì 9 novembre 2016

Le conseguenze dell'abbandono di un genitore

LE CONSEGUENZE DELL'ABBANDONO
 DI UN GENITORE

L’abbandono di un genitore provoca un enorme vuoto emotivo in un figlio. Questo buco gigantesco finisce per isolare e deprimere e distrugge la stabilità emotiva dell’intera realtà dei ragazzi.

Grazie agli studi svolti sull’attaccamento negli ultimi anni, sappiamo che i legami affettivi sani garantiscono lo sviluppo di una vita piena in cui regnano le relazioni sani, una buona autostima, la sicurezza e la fiducia negli altri. L’attaccamento insicuro, invece, ci relega all’incertezza, alla bassa autostima e alla sfiducia nelle persone che ci circondano.

Un legame affettivo negativo tra genitori e figli provoca comportamenti distruttivi e un’angoscia enorme. Realizzare un esercizio di introspezione e di successivo distanziamento dall’accaduto aiuterà a comprenderlo o elaborarlo per garantire una maggiore liberazione emotiva e, di conseguenza, una strutturazione della personalità.

Definire i propri genitori e le relazioni caratterizzate dall’abbandono
Oggigiorno si parla delle relazioni familiari con più facilità rispetto al passato. Tuttavia, se avete avuto a che fare con un genitore assente, che ha abbandonato la famiglia per qualsivoglia motivo, allora vi troverete davanti all’indescrivibilità.

In questi casi, se vi fanno una domanda a proposito dei vostri genitori, non riuscite a far altro che tentennare, abbassare lo sguardo e rispondere in modo vago ed evasivo. Questo è il chiaro segno della difficoltà di definire il vuoto sentimentale e di gestire le cicatrici lasciate dall’abbandono.
A questo proposito, va detto che ci sono molti tipi di abbandono, tanti quanti casi nel mondo.

Vediamo i più comuni:
  • Il genitore emotivamente assente, ma fisicamente presente. Se fate caso alla realtà socio-emotiva che vi circonda, noterete che questa forma di “educazione” è molto comune.
  • Il genitore che vi ha abbandonati prima, durante o dopo l’infanzia. Il dolore dell’abbandono fisico ed emotivo, scelto dalle figure di riferimento quali sono i genitori, lascia germogliare semi molto importanti nel corso della maturazione. È difficile gestire la realtà che si è costretti a vivere in questi casi. D’altronde, come accettare che una persona che dovrebbe accompagnarvi per la la maggior parte della vostra vita decida di allontanarsi da voi?
  • Il genitore che vi ha abbandonati fisicamente o affettivamente durante la gioventù o l’età adulta. Molto probabilmente, chiamerete questa forma di abbandono “tradimento”. Per arrivare a questo punto, c’è bisogno di un’elaborazione verbale particolarmente consapevole.
  • La quasi totale assenza della figura paterna o materna. Qui ci sono diversi sotto-casi:

  1. Il genitore morto prematuramente che non ha avuto la possibilità di avere un ruolo nella vostra vita.
  2. Il genitore che è morto, ma che avete conosciuto. All’interno di questo profilo, il desiderio e l’idealizzazione creano un vuoto particolare.

La gestione del legame distrutto o distruttivo
L’elaborazione psicologica a livello emotivo e in termini di pensiero non dipende solo dal figlio, ma anche dall’ambiente che lo circonda. L’ombra del genitore assente è sempre una tenaglia per la vita familiare.

Non è facile accettare che uno dei propri genitori, punto di riferimento per eccellenza, non sia più nella nostra vita. È per questo che la sua assenza ha una fortissima influenza nella determinazione della nostra evoluzione emotiva.

È possibile che, a seconda della nostra posizione nella gerarchia familiare, un altro membro della famiglia si assuma il ruolo di genitore, pur senza esserlo, per compassione o per necessità. Può anche accadere che siamo noi i primi a sentire il bisogno di gestire certe situazioni.
Ma cos’è un genitore? Questa è un’eterna riflessione, con complesse implicazioni. La cosa più naturale è pensare che il genitore emotivo sia anche colui che ci ha dato la vita; tuttavia, non è sempre così.

È bene specificare che, a seconda del momento evolutivo e delle circostanze relative all’abbandono, assumeremo certe qualità, impegni, responsabilità e ruoli che non ci spettano. Va ricordato che:
Se il genitore viene a mancare in tenera età (0-6 anni), è difficile raggiungere la pienezza emotiva tipica di questa tappa in cui siamo impegnati a crescere.

Se l’abbandono ha avuto luogo nella seconda parte dell’infanzia (6-12 anni), la capacità di consolidare la base dell’attaccamento sano sarà minata, se non distrutta. Nel corso dell’adolescenza, fase in cui è fondamentale avere un appoggio, un punto di riferimento e limiti ben definiti, il processo di costruzione di un’identità solida sarà profondamente destrutturato.

L’infanzia e l’adolescenza sono momenti evolutivi in cui la personalità non si è ancora ben strutturata, dunque l’ansia, la tristezza e il dolore di una perdita segnano profondamente il nostro modo di essere e di relazionarci con gli altri. Detto in altre parole, si tratta della genesi di una destrutturazione interna che per natura non sarebbe dovuta succedere. Per questo motivo, è un fatto particolarmente traumatico che segnerà la nostra essenza e la nostra capacità di interagire con gli altri.
Quando l’abbandono si verifica nel corso della gioventù o dell’età adulta, l’elaborazione necessaria acquisisce diverse sfumature. L’assenza e l’abbandono da parte del genitore provoca delle incongruenze nella personalità e nella capacità di instaurare relazioni.

Se cerchiamo di esprimerlo a parole, il fenomeno dell’abbandono risulta ancora più cruento: la realtà non viene anestetizzata, viene anzi dipinta in modo ancora più cupo. La nostra corazza si fa più dura e, allo stesso tempo, più fragile, rendendo il processo di ricostruzione più complicato.
Conosciamo i segreti, ci rendiamo conto della realtà e sappiamo leggere tra le righe, ma non siamo mai pronti per staccarci dall’idea del genitore come mentore, protettore ed eroe.

Alleviare il dolore per convivere con la perdita
Non stiamo parlando di “superare” la perdita, bensì di “conviverci”. Si può superare la perdita di un mazzo di chiavi, del proprio gioco preferito, ma superare la perdita di un genitore è impossibile.

Questo va accettato, perché se proviamo a convincerci che la perdita del nostro genitore non ci toccherà, costruiremo dei castelli in aria. È irreale credere che qualcosa dotato di un carico affettivo talmente grande possa risultarci indifferente.

Elaborare e gestire il segno lasciato dall’abbandono da parte di un genitore richiede il perdono individuale e familiare, cosa non sempre semplice. Se il nostro nucleo castiga continuamente la figura materna o paterna, se notiamo dolore nel genitore rimasto, nei nostri fratelli o nei nostri nonni, probabilmente trasferiremo tutta quella sofferenza dentro di noi.

Capire questo significa andare avanti, vuol dire essere capaci di separare il dolore degli altri dal nostro. Ovviamente, le due sofferenze compongono un cocktail che ci renderà in qualche modo vulnerabili per sempre.

Ma se delimitiamo la sofferenza e isoliamo ogni singolo fatto, riusciremo a comprendere meglio gli avvenimenti. Questo ci aiuterà a non far proliferare il dolore e le emozioni che accompagnano questo fenomeno e a percorrere il nostro percorso emotivo con passo leggero.

Fonte: lamenteemeravigliosa.it

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mercoledì 2 novembre 2016

C’è un disperato bisogno di abbracci

C'E' UN DISPERATO BISOGNO DI ABBRACCI

L'abbraccio è tra le più tenere manifestazioni d'affetto.
Una ragazza era di pessimo umore. Aveva tutte le sue spine fuori, proprio come un porcospino tormentato da un cane. Troppi compiti a casa, troppe interrogazioni, troppo tutto... ecco! La madre le ripeteva la solita predica, con ragionamenti, spiegazioni e raccomandazioni. 
La ragazza si fece ancora più scura. Poi guardò la madre dritta negli occhi e scandì: «Mamma, sono stanca e stufa delle tue prediche. Perché invece non mi prendi tra le tue braccia e mi tieni stretta? Nessun consiglio potrà mai farmi altrettanto bene!». 
La madre rimase a bocca aperta. Gli occhi della figlia imploravano un abbraccio. Con la voce rotta dalla voglia di piangere, disse: «Vuoi... vuoi che ti abbracci? Ma lo sai che anch'io... anch'io voglio che tu mi abbracci?». Accolse la figlia nelle braccia aperte e la strinse a sé, come fosse ancora una bimba. E tutte le tensioni svanirono.
 
«Per favore, abbracciami!» L'abbraccio è una preghiera, una supplica, tanto ci è indispensabile. 
Pochi mesi prima di morire, la scrittrice Natalia Ginzburg (1916-1991) confidava: “Il mio mestiere è quello di scrivere”, ma, subito dopo, abbracciando il piccolo pronipote aggiungeva: “Questa è la vita! Non i libri!”. 

Non c'è dubbio che basta essere uomini per aver bisogno della tenerezza di qualcuno. 
Giacomo Leopardi (1798-1837) in una lettera del novembre 1822 gridava al fratello Carlo: 
Amami, per Dio! Ho bisogno di amore, amore, amore!”. 
Ancora nel luglio 1828 ripeteva vanamente: “Io non ho bisogno di gloria, né di stima, né di altre cose simili, ma ho bisogno di amore!”. 

Bisogno di abbracci 
Oggi i sociologi ci fanno notare che “non è bastato liberare il sesso e rimuovere il concetto di morte per avere un popolo felice” (Sabino Acquaviva 1927-2015). 
Che cosa manca, dunque? 
Manca la tenerezza, manca l'abbraccio. 
Scavando alle pendici dei vulcani, l'archeologo sovente ritrova scheletri abbracciati: uniti dal terrore della lava. Abbracciati è più leggero vivere e fa meno paura morire! 

A proposito di abbracci, in America è stata pensata un'iniziativa forse discutibile, certo originale. Si tratta della “Festa delle coccole” (il 'Cuddle Party'). In un appartamento privato, si è liberi di coccolare, di abbracciare chi si vuole per tre ore e mezza (costo: venti euro). Le regole sono molto chiare: ci si distende sul pavimento, indossando il pigiama. Sono ammessi cuscini e peluche. Il sesso è vietato. Prima di baciarsi è necessario chiedere il permesso. Se qualcuno allunga le mani, appositi buttafuori riportano immediatamente l'ordine. 
Secondo gli ideatori i 'Cuddle Party' sono un modo per guarire dall'alienazione metropolitana. Sono validissimi per ritrovare l'umanità, dopo tanti incontri con sole macchine, con soli oggetti. Perché questo è il punto: l'uomo ha bisogno dell'uomo, del profumo dell'uomo, del contatto dell'uomo. Le cose, da sole, non bastano mai: possono riempire il cuore, ma non soddisfarlo.
 
A costo di ripeterci, riportiamo ancora una volta la testimonianza di un medico. 
La maggioranza degli alcolizzati si sono abbandonati al vizio del bere per superare un turbamento infantile, per cancellare una ferita che si è aperta e non si è più rinchiusa. Si attaccano al collo della bottiglia perché non hanno potuto attaccarsi al collo della mamma”. 

Dunque, perché non riportare, senza se e senza ma, l'abbraccio nell'arte di educare? Siamo convinti che sarebbe la più intelligente e benefica rivoluzione della misericordia intesa per quello che è: non compassione, non commiserazione, ma capacità di sintonizzarsi con i bisogni profondi del cuore umano.

IL SEGRETO 
Da piccolo, Mordecai era una vera peste. Così i suoi genitori lo portarono da un sant'uomo a cui tutti ricorrevano per chiedere consigli nei casi più difficili. 
«Lasciatemelo qui un quarto d'ora» disse il sant'uomo. 
Quando i genitori furono usciti, l'anziano chiuse la porta. 
Mordecai sentì un po' di timore. 
Il sant'uomo si avvicinò al bambino e, in silenzio, lo abbracciò. 
Lo abbracciò in modo intenso. 
Quel giorno, Mordecai imparò come si convertono gli uomini.

A LORO LA PAROLA 
“Il mio papà non mi abbraccia più come una volta. 
Non so se lui pensi che io non ne abbia più bisogno. 
Però i suoi abbracci mi mancano” (Marianna, 15 anni). 
“So che a volte è difficile vivere con me. I miei genitori devono adattarsi ai miei vari stati d'animo..., ma quando mi abbracciano o mi mettono anche solo una mano su un braccio, mi sembra che tutto vada bene” (Lorena, 13 anni).

Autori: P.Pellegrino
Fonte: B.S. Giugno 2016
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mercoledì 26 ottobre 2016

Le famiglie tossiche che causano sofferenza

LE FAMIGLIE TOSSICHE CHE CAUSANO SOFFERENZA

Sono molti gli psicologi che hanno fatto particolare attenzione alle relazioni che esistono all'interno delle famiglie, per poter spiegare la psicopatologia che colpisce alcuni dei loro membri. In realtà, tutta la psicologia, con le sue diverse correnti, si interessa a questo tema e lo prende sempre in considerazione come il fattore scatenante di molti disturbi mentali.

Famiglie unite, famiglie divise, genitori più democratici e genitori più autoritari, complicità tra le generazioni, relazioni che incoraggiano il doppio vincolo familiare, genitori iperprotettivi, abbandono, negligenza, ecc. Sono molti i fenomeni studiati che collegano alcune malattie mentali all'ambiente e alle relazioni familiari.

Perché è tanto difficile affrontare questo argomento?
Se c’è un aspetto particolarmente difficile in questo tema, riguarda il giusto modo in cui affrontarlo, spiegarlo e trattarlo, soprattutto quando, in alcune società, alcune idee sono considerate verità assolute che, purtroppo, non sempre si compiono. Il sangue rende parenti, ma non significa molto di più. Viene dato per scontato, come fanno anche alcune frasi del tipo “non c’è niente come la famiglia”, “la famiglia non vuole mai fare del male” o “tra parenti bisogna perdonare qualsiasi cosa”.

Tutto ciò è fonte di grande dolore, senso di colpa e confusione per le persone che pensano che i loro parenti non abbiano saputo rispondere a quella “incondizionalità” che, secondo la società, dovrebbero rappresentare, che sono state vittime di maltrattamenti fisici o psicologici o che credono che il modo in cui sono state cresciute abbia impedito il loro pieno sviluppo e la loro indipendenza emotiva.

Ci sono famiglie che hanno fatto del male in modo intenzionale e altre che lo hanno fatto senza saperlo, dando l’amore, i consigli e l’educazione che ritenevano giusti e necessari, ma senza curarsi del fatto che i loro figli non desideravano il futuro che avevano immaginato per loro.

Con questo articolo, non vogliamo certo segnalare chi ha cresciuto bene i propri figli e chi no, ma tenteremo di dimostrare alcuni miti per spiegare la realtà, ovvero che ci sono famiglie che guariscono e famiglie che fanno ammalare.

Ruoli assegnati ed etichette che segnano
Dalla frase “è un bambino vivace” alla frase “ha un carattere difficile”, esiste una catena impercettibile di piccole frasi che, dette e ripetute all’interno del nucleo familiare, possono colpire duramente chi le ascolta. In fondo, è un modo di dare un’identità a ognuno dei propri figli, di risparmiarsi delle spiegazioni o, in alcuni casi, di nascondere le proprie carenze come genitori che crescono un bambino.

Etichettare un bambino è un modo di immortalare il suo comportamento. Ciò che ascolta dagli altri gli fa credere di avere un comportamento “incorreggibile”, intrinseco al suo essere. Queste etichette vengono trasmesse dai genitori, dai professori e dai conoscenti, penetrando l’ambiente diretto che circonda il bambino.

Come dicevamo, le etichette imposte ai figli non si limitano all’ambiente interno della famiglia, ma raggiungono anche i professori e i conoscenti del bambino. Quando il bambino stesso vuole cambiare il proprio comportamento, si trova di fronte un muro di diffidenza.

Amore frainteso
Quante volte abbiamo sentito ripetere la frase “come ti vuole bene la tua famiglia, non ti vuole bene nessuno”? Questa frase ferisce i sentimenti di molte persone che non hanno avuto una vita facile nella loro famiglia, rendendo difficile l’identificazione e persino la denuncia di alcuni comportamenti abusivi. Non possiamo nemmeno dimenticare che questo maltrattamento può andare in entrambe le direzioni, dalle generazioni più anziane a quelle più giovani o da quelle più giovani a quelle più anziane.

Che qualcuno abbia “il vostro stesso sangue”, non significa che non possa ferirvi con il suo comportamento. La parentela è una questione biologica, genetica, ma un buon legame è affettuoso, comunicativo e soggetto alla variabilità degli individui, che ha poco a che fare con l’eredità genetica.

I geni stabiliscono un legame ereditario che non deve per forza essere accompagnato da un legame affettivo soddisfacente. Queste massime adottate dalla società rendono molto difficile individuare le nostre necessità e i nostri veri interessi come individui.

L’iperprotezione che soffoca e impone limiti
Non basta amare senza limiti, perché persino in amore è necessario fare uso della virtù dell’equilibrio. Nelle prime fasi dello sviluppo del neonato è possibile osservare il suo bisogno di esplorare l’ambiente che lo circonda, avendo una figura rilevante di riferimento, un fatto dimostrato dagli psicologi John Bowlby e Mary Ainsworth.

Gli studi sulle scimmie condotti da Harry Harlow mettono in evidenza che l’affetto e l’amore che il neonato prova nei confronti della madre è fondamentale per sviluppare un legame sicuro che gli permetta di esplorare il mondo in modo indipendente. Nonostante ciò, questo attaccamento non deve essere confuso con l’iperprotezione.

Vegliare sulla sicurezza di un bambino non deve interferire con la sua assoluta libertà di esplorare l’ambiente che lo circonda. Queste prime esperienze di interazione con il mondo determineranno la sua forza e la sua sicurezza nell’affrontare le sfide che il futuro gli riserverà

Le aspirazioni incomplete proiettate sui figli
Il fatto che la maggior parte delle persone scelga di avere figli e che svolgano il loro ruolo di genitori con naturalezza, non significa che, da decisione, debba trasformarsi in un obbligo. La pianificazione familiare e l’incorporazione di massa delle donne al mondo del lavoro hanno ridotto il numero di figli per coppia e hanno portato alcune coppie a difendere pubblicamente la scelta che hanno fatto: quella di non avere alcun figlio.

Poiché si tratta ormai di un’opzione e non più di un obbligo, come accadeva invece in passato, ci ritroviamo in uno scenario più complesso e che richiede una responsabilità e un’onestà maggiori: i figli non devono essere l’ultima risorsa per la coppia, non sono un modo di validazione personale e non devono sopportare il peso della frustrazione dei genitori.

Desiderare per i propri figli un’infanzia migliore di quella vissuta, forse piena di carenze emotive o difficoltà economiche, fa molto onore. Tuttavia, se desiderate proiettare su vostro figlio tutto ciò che non avete potuto o non avete avuto il coraggio di fare, vi state sbagliando.

Imporre ai nostri figli mete a seconda di ciò che hanno ottenuto o meno, paragonare e fare pressione sulla scelta di una certa strada significa minare la loro individualità. Il nostro ruolo in quanto persone che li amano è quello di aiutarli a trovare il loro cammino ed incoraggiarli ad ottenere gli strumenti migliori per poterlo percorrere.

Dobbiamo sempre ricordare che i figli non sono una nostra proprietà, la loro unica padrona è la vita, una volte che viene loro donata

Fonte: lamenteemeravigliosa.it
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mercoledì 19 ottobre 2016

Impariamo ad essere felici

IMPARIAMO AD ESSERE FELICI

La gioia è un fattore di crescita in sé e per sé. Lo aveva intuito bene il geniale scienziato e filosofo del secolo scorso Teilhard de Chardin quando sosteneva che “il pericolo più grave non è la bomba atomica, ma la possibilità che l'uomo perda il gusto della vita”. 

Dicono che il mondo sia di chi si alza presto al mattino. Sbagliato! Il mondo non è di chi si alza presto, ma di chi è felice di alzarsi! 


Dunque possiamo avere in mano il metro per valutare il nostro successo pedagogico: far sì che ogni mattina il figlio svegliandosi dica: “Buongiorno vita!”. 


Per fortuna il segreto per giungere a tanto non è dell'altro mondo.
È nelle nostre mani. Si tratta di mettere in atto almeno le sei strategie che seguono.


Le sei strategie vincenti
1. Non spremiamolo!

Poveri ragazzi con l'agendina! Al mattino a scuola, al pomeriggio a nuoto, a danza, a karaté. A equitazione. Per favore, diamoci una calmata! Basta con i ragazzi che soffrono di ingorgo psichico! Quando arriverà il giorno in cui tutti i genitori del mondo si metteranno in testa che il bambino che non gioca gioia ne ha poca?
Quando tutti i padri e tutte le madri si convinceranno che è infinitamente meglio avere figli felici che famosi? Da quel giorno benedetto, i piccoli della Scuola Primaria non scriveranno più ciò che ha scritto un bambino di otto anni che alla domanda della maestra: “Che cosa farai da grande?” ha risposto: “Da grande mi riposo!” (autentico!). 


2. Teniamo d'occhio la vita di coppia
Non ci vuole molto ad ammettere immediatamente che la gioia dei figli è legata a quella dei genitori. È un dato di fatto che quando papà e mamma fanno scintille chi viene turbato è il figlio. “Quando due elefanti si combattono chi ci rimette è l'erba del prato” dice la sapienza africana. 


3. Tutte le mattine stracciamo le parole invalidanti
Mini campionario: “Bisognerebbe pestarti!”. “Ma che figlio abbiamo!”. “Sai solo fare pasticci!”. Parole che graffiano l'anima del figlio, la amareggiano, la avvelenano contro tutti e contro tutto. Parole da gettare subito nel cestino della carta straccia. 


4. Cambiamo gli occhiali
Perché non partire da oggi stesso a cercare il lato buono che è nascosto nel figlio? Il cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012), dopo un incontro con alcuni genitori, scriveva sul suo diario personale: “Niente è più opprimente che incontrare genitori che si lamentano in continuazione e non si accorgono delle meravigliose opportunità che hanno a portata di mano!”.
Già lo sappiamo: Dio non crea scarti! Anche nella persona più slabbrata vi è almeno un 5% di buono. Diceva bene il profondo scrittore francese Albert Camus: “Nell'uomo vi sono sempre più cose da ammirare che da disprezzare”. 


5. Accettiamo il figlio fino in fondo
Anche se non sempre corrisponde ai nostri sogni. Specialmente se adolescente, accettiamo anche qualche suo 'pallino'. I genitori che accettano pienamente il figlio, lo aiutano a volersi bene. Opera preziosissima: chi non vede in sé un amico, muore di disperazione! 


6. Facciamolo sentire utile almeno due volte al giorno
Due sono le cose certe: la prima: chi non si sente utile sente d'aver sbagliato a nascere; la seconda: solo chi può dimostrare una qualche sua bravura trova una ragione per vivere e gustare la vita.
In breve: il senso dell'inutilità azzera la felicità! 


Tutti gli psicologi dicono che, soprattutto il bambino, ha una voglia matta di fare, di aiutare, di imparare. Scusate la franchezza, ma ci preme andare subito al cuore del problema: non è arrivato il tempo di smetterla di far sentire incapaci i nostri figli? Ormai ha sei anni e l'arancia può sbucciarsela con le sue mani. Ormai ha otto anni e lo zainetto scolastico può benissimo gestirselo da solo. Ormai ha quindici anni e può far sentire la sua opinione a riguardo dell'auto che stiamo per cambiare. 

Mettere al mondo un figlio e farlo sentire incapace di vivere è da crudeli: è impedirgli di sperimentare l'esaltante avventura della vita.
Siamo sulla sponda opposta dello squillante “Facciamo festa!”.



Autori: P.Pellegrino
Fonte: B.S. Settembre  2016
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mercoledì 12 ottobre 2016

Pensiero desiderativo: quando vediamo solo ciò che vogliamo vedere

PENSIERO DESIDERATIVO:
QUANDO VEDIAMO CIO' CHE VOGLIAMO VEDERE

Prendiamo continuamente decisioni che hanno a che vedere con il nostro lavoro, le nostre relazioni. Tuttavia, credete che siano tutte razionali e logiche? A volte non siamo consapevoli del fatto che il nostro pensiero è desiderativo, influenzato enormemente dai nostri desideri.


“Puoi ignorare la realtà, ma non puoi ignorare le conseguenze della realtà. “
-Ayn Rand-
Quando desideriamo un oggetto o che si verifichi una situazione, ad esempio raggiungere una determinata meta o poter avere quella casa che abbiamo visto e che non possiamo toglierci dalla mente, inviamo dei segnali al nostro cervello, indicando allo stesso che ci manca qualcosa. Tutte le decisioni che prendiamo a partire da allora saranno influenzate da tale desiderio.

Cosa succede allora con la realtà? Si trasforma in ciò che vogliamo e ci fa vedere tutto “a modo nostro”. Non è difficile pensare alla quantità di problemi che questo può provocarci, che si tratti di rapporti affettivi o di lavoro. La realtà è quella che è e non cambierà solo perché noi vogliamo vederla con altri occhi.

Il pensiero diventa schiavo del desiderio
Potrebbe sembrare estremo, ma il pensiero diventa schiavo di quel desiderio che si è impossessato della nostra mente, soprattutto se si tratta di un grande desiderio. Quando si verifica ciò, per quanto pensiamo di prendere decisioni razionali, non accadrà. Non vediamo più la realtà per quella che è, ma per come noi la vogliamo.

Il pensiero desiderativo si basa sull'illusione e sulla fantasia. In questo modo, non importa cosa accade davvero, se stiamo seguendo il cammino sbagliato, se non trattiamo bene gli altri, se commettiamo degli errori… Non vediamo altro che questo, perché stiamo visualizzando un mondo a parte, un mondo che immaginiamo e rendiamo reale nella nostra mente.

Anche se, a volte, i pensieri desiderativi possono motivarci, a volte sono anche un mezzo tramite cui evadere da situazioni che non ci aggradano. Immaginiamo, ad esempio, che in una coppia – che ormai non funziona – si desideri che tutto sia come in passato, quando le cose andavano meglio. Il nostro pensiero recupererà i ricordi di quei tempi felici, li riporterà al presente e immagineremo, così, che la relazione vada bene.

La realtà può essere molto dolorosa e, per questo, in modo inconsapevole, cerchiamo di sfuggire ad essa.

Viviamo in un mondo fantastico senza volerlo e senza essere coscienti di chiudere gli occhi di fronte a ciò che sta succedendo. In realtà, fingiamo. Finiamo per centrarci su noi stessi, sui nostri desideri e ci dimentichiamo degli altri. Questo provoca grandi problemi a chi ci circonda.

Le trappole del pensiero desiderativo
Dobbiamo essere consapevoli del fatto che il pensiero desiderativo non nasce mai dalla realtà, ma da ciò che desideriamo succeda. Tuttavia, in realtà, essere realisti è necessario per non cadere in certe trappole che possono provocare gravi problemi alle nostre vite. Eccone alcune:

·         Fissarsi sull'obiettivo finale, ma non sul cammino: questo impedisce di vedere gli errori che si stanno commettendo, quello che si fa male e, se non si porre rimedio, non porterà a nulla di buono. A volte ciò che tanto desiderate può rivoltarvisi contro.

·         Non riuscire a capire se quello che si vuole ottenere è fattibile: quando abbiamo un obbiettivo o un sogno, la prima cosa che dobbiamo fare è pensare se è fattibile o meno, per evitare di sforzarci invano e di disilluderci. Il pensiero desiderativo impedisce questa verifica e favorisce, a sua volta, l’investimento di risorse in obbiettivi che non possiamo raggiungere.

·         Sentirsi frustrati e disillusi: il pensiero desiderativo vi farà vivere in un mondo fantastico, che non è reale. Quando ve ne renderete conto, proverete frustrazione e disillusione. Ciò nonostante, se il vostro desiderio è molto intenso, continuerete a portare avanti questa situazione, che finirà per distruggervi progressivamente.

Prima o poi, la realtà si presenterà alla vostra porta, molto più crudele e amara.

Se viviamo in questo mondo di fantasia per troppo tempo, arriveremo ad un punto in cui non sapremo più riconoscere cosa è reale e cosa non lo è. Ci saranno momenti in cui gli altri proveranno a farci aprire gli occhi. Sarà una doccia gelata. Non ricorrete nuovamente alla fantasia per sentirvi meglio.

Viviamo in un mondo reale, dal quale, per quanto vogliamo, non possiamo scappare. Se non aprite gli occhi, le situazioni e le persone finiranno per farvelo fare al posto vostro. È meglio che lo facciate voi, se non volete vedervi distruggere dallo stesso sogno in cui siete rimasti incastrati per troppo tempo, una bugia che avete reso reale.

Il pensiero desiderativo è confortevole. Ci fa stare bene, perché ci fa stare come vorremo stare. Tuttavia, ci trasforma in persone codarde, che fuggono dalla realtà e da tutto ciò che non vogliamo accettare.

Fonte: lamenteemeravigliosa.it
Paidos Onlus
dalla parte dei bambini, SEMPRE

mercoledì 5 ottobre 2016

Come connettersi con un figlio adolescente

COME CONNETTERSI CON UN FIGLIO ADOLESCENTE

Il problema c'è. L'adolescenza è il periodo che esige un supplemento pedagogico e, nello stesso tempo, è il periodo della massima opposizione del figlio ad ogni nostra proposta. Connettersi con i ragazzi adolescenti è un'impresa!

Un rebus con la soluzione
«Proprio ora, quando avrebbe bisogno d'essere aiutato, disprezza e rigetta con spavalderia ogni nostra parola, anche quella che ci sembra la più ovvia e la più giusta!»
Sì, avete ragione. L'adolescenza (11-18 anni) è il periodo della più forte opposizione e, nello stesso tempo, del massimo bisogno di aiuto.

Incominciamo dal bisogno d'aiuto. L'adolescente vive un periodo di grande confusione mentale.
Confonde amore con infatuazione, libertà con arbitrio, critica con criticismo, intimità con mutismo. Insomma, massimo disordine mentale che, se non viene corretto, può avere in futuro conseguenze pesantissime. Il guaio è che in nessun altro periodo della vita troviamo un'opposizione tanto dura e sicura.

Gli psicologi parlano di autoaffermazione oppositiva per dire che l'adolescente afferma se stesso opponendosi a tutto e a tutti. L'adolescente si pone in quanto si oppone: esiste in quanto resiste! Non stiamo gargarizzando parole: stiamo fotografando le realtà.

Due fatti.
Il padre dice a Richy (13 anni) che il CD che si è appena comprato, piace anche a lui. Da quel momento Richy smette di ascoltarlo.
Soraya (15 anni) va a comprarsi un paio di jeans. Prima di pagarli, domanda alla commessa: «Se decidessi, potrei cambiarli?». La commessa: «Perché cambiarli?». «Non si sa mai, qualora piacessero a mia madre».
A questo punto è facile tirare la somma: da un lato l'urgenza dell'aiuto e dall'altro il totale rifiuto!
In breve: un gran bel rebus connetterci con i nostri ragazzi, trovare ospitalità nella loro mente e nel loro cuore. È impossibile intercettare i nostri ragazzi digitali?
Pensiamo di avere la soluzione al problema in una proposta. Una proposta che ha due momenti.
Il primo, quello della confezione delle parole in sintonia con il modo di pensare dell'adolescente d'oggi.
Il secondo, quello della presentazione garbata di tali parole in modo da non urtare la loro ipersensibilità.

Le parole ridotte all'osso
Per quanto riguarda la confezione delle parole è presto detto: oggi i ragazzi amano le spremute. È sotto gli occhi di tutti: i nostri ragazzi twittano, cinguettano. Il loro è un parlare secco, breve, crocchiante, energico. Andiamo sul sicuro quando diciamo che mai come dal 1991 (anno dal quale si fa iniziare l'era del Web) gli adolescenti sono stati così allergici alle “prediche”. Dunque messaggi ridotti all'osso.

Il metodo indiretto
Per quanto riguarda, poi, la loro presentazione, non pensiamo vi sia altra via più indovinata che quella del metodo indiretto. Parlare in modo frontale, prendere di petto il ragazzo, equivale ad ingaggiare una lotta a pugno di ferro, lotta nella quale il vincitore sarà sempre lui, più giovane di noi e forse anche più dialettico. Il metodo frontale non solo non approda a nulla, ma aggrava la situazione.
Decisamente meglio è praticare il metodo indiretto.

Un esempio.
La famiglia è in auto. Il padre guida, la madre gli è accanto, dietro siede il figlio adolescente. Ad un tratto il padre (senza coinvolgere il ragazzo!) domanda alla madre: «Che ne dici del film che abbiamo visto ieri sera alla televisione?» La madre risponde: «Non mi è spiaciuto, però tutte quelle parolacce! Credono d'essere grandi, in realtà le parolacce non sono che volgari!»
Il padre conclude: «D'accordo! Hai tutta la ragione dalla tua parte: le parolacce sono come un raglio d'asino nel bel mezzo di un concerto!».

Ecco: il figlio non è stato interpellato, però ha sentito. Ha sentito e, se vuole, apre la sua mente alla nostra opinione sulle parole grossolane. Questo è il metodo indiretto al quale va tutta la nostra simpatia. Metodo indiretto è anche, ad esempio, abbandonare un libro adatto al ragazzo nella cucina, nel salotto, nella camera da letto del figlio.

Metodo indiretto è parlare del più e del meno durante il pasto (particolarmente a cena), raccontando come è andata la giornata, dando un giudizio sulle cose lette sul giornale, sulle cose viste sul lavoro, il tutto senza salire in cattedra, ma con la massima spontaneità.

Le parole dette senza preavviso sovente hanno un fortissimo impatto sul figlio perché rivelano senza filtro i nostri pensieri, le nostre opinioni, i valori che ci portiamo dentro.
Il noto pedagogista italoamericano Leo Buscaglia era solito dire che a costruirgli il suo codice di vita erano state le parole che il padre lasciava cadere a tavola durante la cena con una spontaneità tale che lo rendevano credibile.

Il padre gli diceva: «È fondamentale amare. Non tradire mai te stesso. Se vinci gli altri sei muscoloso, se vinci te stesso, sei forte. Il portafoglio non soddisfa tutto. Si può essere imbalsamati a 16 anni: basta arrendersi».
Una proposta non miracolosa, ma una proposta alla quale ci pare di dover riconoscere due meriti: non danneggia mai l'educazione del figlio e (ciò che più conta!) sovente funziona.

Autori: P.Pellegrino
Fonte: B.S. Ottobre 2016
Paidos Onlus
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