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mercoledì 26 ottobre 2016

Le famiglie tossiche che causano sofferenza

LE FAMIGLIE TOSSICHE CHE CAUSANO SOFFERENZA

Sono molti gli psicologi che hanno fatto particolare attenzione alle relazioni che esistono all'interno delle famiglie, per poter spiegare la psicopatologia che colpisce alcuni dei loro membri. In realtà, tutta la psicologia, con le sue diverse correnti, si interessa a questo tema e lo prende sempre in considerazione come il fattore scatenante di molti disturbi mentali.

Famiglie unite, famiglie divise, genitori più democratici e genitori più autoritari, complicità tra le generazioni, relazioni che incoraggiano il doppio vincolo familiare, genitori iperprotettivi, abbandono, negligenza, ecc. Sono molti i fenomeni studiati che collegano alcune malattie mentali all'ambiente e alle relazioni familiari.

Perché è tanto difficile affrontare questo argomento?
Se c’è un aspetto particolarmente difficile in questo tema, riguarda il giusto modo in cui affrontarlo, spiegarlo e trattarlo, soprattutto quando, in alcune società, alcune idee sono considerate verità assolute che, purtroppo, non sempre si compiono. Il sangue rende parenti, ma non significa molto di più. Viene dato per scontato, come fanno anche alcune frasi del tipo “non c’è niente come la famiglia”, “la famiglia non vuole mai fare del male” o “tra parenti bisogna perdonare qualsiasi cosa”.

Tutto ciò è fonte di grande dolore, senso di colpa e confusione per le persone che pensano che i loro parenti non abbiano saputo rispondere a quella “incondizionalità” che, secondo la società, dovrebbero rappresentare, che sono state vittime di maltrattamenti fisici o psicologici o che credono che il modo in cui sono state cresciute abbia impedito il loro pieno sviluppo e la loro indipendenza emotiva.

Ci sono famiglie che hanno fatto del male in modo intenzionale e altre che lo hanno fatto senza saperlo, dando l’amore, i consigli e l’educazione che ritenevano giusti e necessari, ma senza curarsi del fatto che i loro figli non desideravano il futuro che avevano immaginato per loro.

Con questo articolo, non vogliamo certo segnalare chi ha cresciuto bene i propri figli e chi no, ma tenteremo di dimostrare alcuni miti per spiegare la realtà, ovvero che ci sono famiglie che guariscono e famiglie che fanno ammalare.

Ruoli assegnati ed etichette che segnano
Dalla frase “è un bambino vivace” alla frase “ha un carattere difficile”, esiste una catena impercettibile di piccole frasi che, dette e ripetute all’interno del nucleo familiare, possono colpire duramente chi le ascolta. In fondo, è un modo di dare un’identità a ognuno dei propri figli, di risparmiarsi delle spiegazioni o, in alcuni casi, di nascondere le proprie carenze come genitori che crescono un bambino.

Etichettare un bambino è un modo di immortalare il suo comportamento. Ciò che ascolta dagli altri gli fa credere di avere un comportamento “incorreggibile”, intrinseco al suo essere. Queste etichette vengono trasmesse dai genitori, dai professori e dai conoscenti, penetrando l’ambiente diretto che circonda il bambino.

Come dicevamo, le etichette imposte ai figli non si limitano all’ambiente interno della famiglia, ma raggiungono anche i professori e i conoscenti del bambino. Quando il bambino stesso vuole cambiare il proprio comportamento, si trova di fronte un muro di diffidenza.

Amore frainteso
Quante volte abbiamo sentito ripetere la frase “come ti vuole bene la tua famiglia, non ti vuole bene nessuno”? Questa frase ferisce i sentimenti di molte persone che non hanno avuto una vita facile nella loro famiglia, rendendo difficile l’identificazione e persino la denuncia di alcuni comportamenti abusivi. Non possiamo nemmeno dimenticare che questo maltrattamento può andare in entrambe le direzioni, dalle generazioni più anziane a quelle più giovani o da quelle più giovani a quelle più anziane.

Che qualcuno abbia “il vostro stesso sangue”, non significa che non possa ferirvi con il suo comportamento. La parentela è una questione biologica, genetica, ma un buon legame è affettuoso, comunicativo e soggetto alla variabilità degli individui, che ha poco a che fare con l’eredità genetica.

I geni stabiliscono un legame ereditario che non deve per forza essere accompagnato da un legame affettivo soddisfacente. Queste massime adottate dalla società rendono molto difficile individuare le nostre necessità e i nostri veri interessi come individui.

L’iperprotezione che soffoca e impone limiti
Non basta amare senza limiti, perché persino in amore è necessario fare uso della virtù dell’equilibrio. Nelle prime fasi dello sviluppo del neonato è possibile osservare il suo bisogno di esplorare l’ambiente che lo circonda, avendo una figura rilevante di riferimento, un fatto dimostrato dagli psicologi John Bowlby e Mary Ainsworth.

Gli studi sulle scimmie condotti da Harry Harlow mettono in evidenza che l’affetto e l’amore che il neonato prova nei confronti della madre è fondamentale per sviluppare un legame sicuro che gli permetta di esplorare il mondo in modo indipendente. Nonostante ciò, questo attaccamento non deve essere confuso con l’iperprotezione.

Vegliare sulla sicurezza di un bambino non deve interferire con la sua assoluta libertà di esplorare l’ambiente che lo circonda. Queste prime esperienze di interazione con il mondo determineranno la sua forza e la sua sicurezza nell’affrontare le sfide che il futuro gli riserverà

Le aspirazioni incomplete proiettate sui figli
Il fatto che la maggior parte delle persone scelga di avere figli e che svolgano il loro ruolo di genitori con naturalezza, non significa che, da decisione, debba trasformarsi in un obbligo. La pianificazione familiare e l’incorporazione di massa delle donne al mondo del lavoro hanno ridotto il numero di figli per coppia e hanno portato alcune coppie a difendere pubblicamente la scelta che hanno fatto: quella di non avere alcun figlio.

Poiché si tratta ormai di un’opzione e non più di un obbligo, come accadeva invece in passato, ci ritroviamo in uno scenario più complesso e che richiede una responsabilità e un’onestà maggiori: i figli non devono essere l’ultima risorsa per la coppia, non sono un modo di validazione personale e non devono sopportare il peso della frustrazione dei genitori.

Desiderare per i propri figli un’infanzia migliore di quella vissuta, forse piena di carenze emotive o difficoltà economiche, fa molto onore. Tuttavia, se desiderate proiettare su vostro figlio tutto ciò che non avete potuto o non avete avuto il coraggio di fare, vi state sbagliando.

Imporre ai nostri figli mete a seconda di ciò che hanno ottenuto o meno, paragonare e fare pressione sulla scelta di una certa strada significa minare la loro individualità. Il nostro ruolo in quanto persone che li amano è quello di aiutarli a trovare il loro cammino ed incoraggiarli ad ottenere gli strumenti migliori per poterlo percorrere.

Dobbiamo sempre ricordare che i figli non sono una nostra proprietà, la loro unica padrona è la vita, una volte che viene loro donata

Fonte: lamenteemeravigliosa.it
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mercoledì 19 ottobre 2016

Impariamo ad essere felici

IMPARIAMO AD ESSERE FELICI

La gioia è un fattore di crescita in sé e per sé. Lo aveva intuito bene il geniale scienziato e filosofo del secolo scorso Teilhard de Chardin quando sosteneva che “il pericolo più grave non è la bomba atomica, ma la possibilità che l'uomo perda il gusto della vita”. 

Dicono che il mondo sia di chi si alza presto al mattino. Sbagliato! Il mondo non è di chi si alza presto, ma di chi è felice di alzarsi! 


Dunque possiamo avere in mano il metro per valutare il nostro successo pedagogico: far sì che ogni mattina il figlio svegliandosi dica: “Buongiorno vita!”. 


Per fortuna il segreto per giungere a tanto non è dell'altro mondo.
È nelle nostre mani. Si tratta di mettere in atto almeno le sei strategie che seguono.


Le sei strategie vincenti
1. Non spremiamolo!

Poveri ragazzi con l'agendina! Al mattino a scuola, al pomeriggio a nuoto, a danza, a karaté. A equitazione. Per favore, diamoci una calmata! Basta con i ragazzi che soffrono di ingorgo psichico! Quando arriverà il giorno in cui tutti i genitori del mondo si metteranno in testa che il bambino che non gioca gioia ne ha poca?
Quando tutti i padri e tutte le madri si convinceranno che è infinitamente meglio avere figli felici che famosi? Da quel giorno benedetto, i piccoli della Scuola Primaria non scriveranno più ciò che ha scritto un bambino di otto anni che alla domanda della maestra: “Che cosa farai da grande?” ha risposto: “Da grande mi riposo!” (autentico!). 


2. Teniamo d'occhio la vita di coppia
Non ci vuole molto ad ammettere immediatamente che la gioia dei figli è legata a quella dei genitori. È un dato di fatto che quando papà e mamma fanno scintille chi viene turbato è il figlio. “Quando due elefanti si combattono chi ci rimette è l'erba del prato” dice la sapienza africana. 


3. Tutte le mattine stracciamo le parole invalidanti
Mini campionario: “Bisognerebbe pestarti!”. “Ma che figlio abbiamo!”. “Sai solo fare pasticci!”. Parole che graffiano l'anima del figlio, la amareggiano, la avvelenano contro tutti e contro tutto. Parole da gettare subito nel cestino della carta straccia. 


4. Cambiamo gli occhiali
Perché non partire da oggi stesso a cercare il lato buono che è nascosto nel figlio? Il cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012), dopo un incontro con alcuni genitori, scriveva sul suo diario personale: “Niente è più opprimente che incontrare genitori che si lamentano in continuazione e non si accorgono delle meravigliose opportunità che hanno a portata di mano!”.
Già lo sappiamo: Dio non crea scarti! Anche nella persona più slabbrata vi è almeno un 5% di buono. Diceva bene il profondo scrittore francese Albert Camus: “Nell'uomo vi sono sempre più cose da ammirare che da disprezzare”. 


5. Accettiamo il figlio fino in fondo
Anche se non sempre corrisponde ai nostri sogni. Specialmente se adolescente, accettiamo anche qualche suo 'pallino'. I genitori che accettano pienamente il figlio, lo aiutano a volersi bene. Opera preziosissima: chi non vede in sé un amico, muore di disperazione! 


6. Facciamolo sentire utile almeno due volte al giorno
Due sono le cose certe: la prima: chi non si sente utile sente d'aver sbagliato a nascere; la seconda: solo chi può dimostrare una qualche sua bravura trova una ragione per vivere e gustare la vita.
In breve: il senso dell'inutilità azzera la felicità! 


Tutti gli psicologi dicono che, soprattutto il bambino, ha una voglia matta di fare, di aiutare, di imparare. Scusate la franchezza, ma ci preme andare subito al cuore del problema: non è arrivato il tempo di smetterla di far sentire incapaci i nostri figli? Ormai ha sei anni e l'arancia può sbucciarsela con le sue mani. Ormai ha otto anni e lo zainetto scolastico può benissimo gestirselo da solo. Ormai ha quindici anni e può far sentire la sua opinione a riguardo dell'auto che stiamo per cambiare. 

Mettere al mondo un figlio e farlo sentire incapace di vivere è da crudeli: è impedirgli di sperimentare l'esaltante avventura della vita.
Siamo sulla sponda opposta dello squillante “Facciamo festa!”.



Autori: P.Pellegrino
Fonte: B.S. Settembre  2016
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mercoledì 12 ottobre 2016

Pensiero desiderativo: quando vediamo solo ciò che vogliamo vedere

PENSIERO DESIDERATIVO:
QUANDO VEDIAMO CIO' CHE VOGLIAMO VEDERE

Prendiamo continuamente decisioni che hanno a che vedere con il nostro lavoro, le nostre relazioni. Tuttavia, credete che siano tutte razionali e logiche? A volte non siamo consapevoli del fatto che il nostro pensiero è desiderativo, influenzato enormemente dai nostri desideri.


“Puoi ignorare la realtà, ma non puoi ignorare le conseguenze della realtà. “
-Ayn Rand-
Quando desideriamo un oggetto o che si verifichi una situazione, ad esempio raggiungere una determinata meta o poter avere quella casa che abbiamo visto e che non possiamo toglierci dalla mente, inviamo dei segnali al nostro cervello, indicando allo stesso che ci manca qualcosa. Tutte le decisioni che prendiamo a partire da allora saranno influenzate da tale desiderio.

Cosa succede allora con la realtà? Si trasforma in ciò che vogliamo e ci fa vedere tutto “a modo nostro”. Non è difficile pensare alla quantità di problemi che questo può provocarci, che si tratti di rapporti affettivi o di lavoro. La realtà è quella che è e non cambierà solo perché noi vogliamo vederla con altri occhi.

Il pensiero diventa schiavo del desiderio
Potrebbe sembrare estremo, ma il pensiero diventa schiavo di quel desiderio che si è impossessato della nostra mente, soprattutto se si tratta di un grande desiderio. Quando si verifica ciò, per quanto pensiamo di prendere decisioni razionali, non accadrà. Non vediamo più la realtà per quella che è, ma per come noi la vogliamo.

Il pensiero desiderativo si basa sull'illusione e sulla fantasia. In questo modo, non importa cosa accade davvero, se stiamo seguendo il cammino sbagliato, se non trattiamo bene gli altri, se commettiamo degli errori… Non vediamo altro che questo, perché stiamo visualizzando un mondo a parte, un mondo che immaginiamo e rendiamo reale nella nostra mente.

Anche se, a volte, i pensieri desiderativi possono motivarci, a volte sono anche un mezzo tramite cui evadere da situazioni che non ci aggradano. Immaginiamo, ad esempio, che in una coppia – che ormai non funziona – si desideri che tutto sia come in passato, quando le cose andavano meglio. Il nostro pensiero recupererà i ricordi di quei tempi felici, li riporterà al presente e immagineremo, così, che la relazione vada bene.

La realtà può essere molto dolorosa e, per questo, in modo inconsapevole, cerchiamo di sfuggire ad essa.

Viviamo in un mondo fantastico senza volerlo e senza essere coscienti di chiudere gli occhi di fronte a ciò che sta succedendo. In realtà, fingiamo. Finiamo per centrarci su noi stessi, sui nostri desideri e ci dimentichiamo degli altri. Questo provoca grandi problemi a chi ci circonda.

Le trappole del pensiero desiderativo
Dobbiamo essere consapevoli del fatto che il pensiero desiderativo non nasce mai dalla realtà, ma da ciò che desideriamo succeda. Tuttavia, in realtà, essere realisti è necessario per non cadere in certe trappole che possono provocare gravi problemi alle nostre vite. Eccone alcune:

·         Fissarsi sull'obiettivo finale, ma non sul cammino: questo impedisce di vedere gli errori che si stanno commettendo, quello che si fa male e, se non si porre rimedio, non porterà a nulla di buono. A volte ciò che tanto desiderate può rivoltarvisi contro.

·         Non riuscire a capire se quello che si vuole ottenere è fattibile: quando abbiamo un obbiettivo o un sogno, la prima cosa che dobbiamo fare è pensare se è fattibile o meno, per evitare di sforzarci invano e di disilluderci. Il pensiero desiderativo impedisce questa verifica e favorisce, a sua volta, l’investimento di risorse in obbiettivi che non possiamo raggiungere.

·         Sentirsi frustrati e disillusi: il pensiero desiderativo vi farà vivere in un mondo fantastico, che non è reale. Quando ve ne renderete conto, proverete frustrazione e disillusione. Ciò nonostante, se il vostro desiderio è molto intenso, continuerete a portare avanti questa situazione, che finirà per distruggervi progressivamente.

Prima o poi, la realtà si presenterà alla vostra porta, molto più crudele e amara.

Se viviamo in questo mondo di fantasia per troppo tempo, arriveremo ad un punto in cui non sapremo più riconoscere cosa è reale e cosa non lo è. Ci saranno momenti in cui gli altri proveranno a farci aprire gli occhi. Sarà una doccia gelata. Non ricorrete nuovamente alla fantasia per sentirvi meglio.

Viviamo in un mondo reale, dal quale, per quanto vogliamo, non possiamo scappare. Se non aprite gli occhi, le situazioni e le persone finiranno per farvelo fare al posto vostro. È meglio che lo facciate voi, se non volete vedervi distruggere dallo stesso sogno in cui siete rimasti incastrati per troppo tempo, una bugia che avete reso reale.

Il pensiero desiderativo è confortevole. Ci fa stare bene, perché ci fa stare come vorremo stare. Tuttavia, ci trasforma in persone codarde, che fuggono dalla realtà e da tutto ciò che non vogliamo accettare.

Fonte: lamenteemeravigliosa.it
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mercoledì 5 ottobre 2016

Come connettersi con un figlio adolescente

COME CONNETTERSI CON UN FIGLIO ADOLESCENTE

Il problema c'è. L'adolescenza è il periodo che esige un supplemento pedagogico e, nello stesso tempo, è il periodo della massima opposizione del figlio ad ogni nostra proposta. Connettersi con i ragazzi adolescenti è un'impresa!

Un rebus con la soluzione
«Proprio ora, quando avrebbe bisogno d'essere aiutato, disprezza e rigetta con spavalderia ogni nostra parola, anche quella che ci sembra la più ovvia e la più giusta!»
Sì, avete ragione. L'adolescenza (11-18 anni) è il periodo della più forte opposizione e, nello stesso tempo, del massimo bisogno di aiuto.

Incominciamo dal bisogno d'aiuto. L'adolescente vive un periodo di grande confusione mentale.
Confonde amore con infatuazione, libertà con arbitrio, critica con criticismo, intimità con mutismo. Insomma, massimo disordine mentale che, se non viene corretto, può avere in futuro conseguenze pesantissime. Il guaio è che in nessun altro periodo della vita troviamo un'opposizione tanto dura e sicura.

Gli psicologi parlano di autoaffermazione oppositiva per dire che l'adolescente afferma se stesso opponendosi a tutto e a tutti. L'adolescente si pone in quanto si oppone: esiste in quanto resiste! Non stiamo gargarizzando parole: stiamo fotografando le realtà.

Due fatti.
Il padre dice a Richy (13 anni) che il CD che si è appena comprato, piace anche a lui. Da quel momento Richy smette di ascoltarlo.
Soraya (15 anni) va a comprarsi un paio di jeans. Prima di pagarli, domanda alla commessa: «Se decidessi, potrei cambiarli?». La commessa: «Perché cambiarli?». «Non si sa mai, qualora piacessero a mia madre».
A questo punto è facile tirare la somma: da un lato l'urgenza dell'aiuto e dall'altro il totale rifiuto!
In breve: un gran bel rebus connetterci con i nostri ragazzi, trovare ospitalità nella loro mente e nel loro cuore. È impossibile intercettare i nostri ragazzi digitali?
Pensiamo di avere la soluzione al problema in una proposta. Una proposta che ha due momenti.
Il primo, quello della confezione delle parole in sintonia con il modo di pensare dell'adolescente d'oggi.
Il secondo, quello della presentazione garbata di tali parole in modo da non urtare la loro ipersensibilità.

Le parole ridotte all'osso
Per quanto riguarda la confezione delle parole è presto detto: oggi i ragazzi amano le spremute. È sotto gli occhi di tutti: i nostri ragazzi twittano, cinguettano. Il loro è un parlare secco, breve, crocchiante, energico. Andiamo sul sicuro quando diciamo che mai come dal 1991 (anno dal quale si fa iniziare l'era del Web) gli adolescenti sono stati così allergici alle “prediche”. Dunque messaggi ridotti all'osso.

Il metodo indiretto
Per quanto riguarda, poi, la loro presentazione, non pensiamo vi sia altra via più indovinata che quella del metodo indiretto. Parlare in modo frontale, prendere di petto il ragazzo, equivale ad ingaggiare una lotta a pugno di ferro, lotta nella quale il vincitore sarà sempre lui, più giovane di noi e forse anche più dialettico. Il metodo frontale non solo non approda a nulla, ma aggrava la situazione.
Decisamente meglio è praticare il metodo indiretto.

Un esempio.
La famiglia è in auto. Il padre guida, la madre gli è accanto, dietro siede il figlio adolescente. Ad un tratto il padre (senza coinvolgere il ragazzo!) domanda alla madre: «Che ne dici del film che abbiamo visto ieri sera alla televisione?» La madre risponde: «Non mi è spiaciuto, però tutte quelle parolacce! Credono d'essere grandi, in realtà le parolacce non sono che volgari!»
Il padre conclude: «D'accordo! Hai tutta la ragione dalla tua parte: le parolacce sono come un raglio d'asino nel bel mezzo di un concerto!».

Ecco: il figlio non è stato interpellato, però ha sentito. Ha sentito e, se vuole, apre la sua mente alla nostra opinione sulle parole grossolane. Questo è il metodo indiretto al quale va tutta la nostra simpatia. Metodo indiretto è anche, ad esempio, abbandonare un libro adatto al ragazzo nella cucina, nel salotto, nella camera da letto del figlio.

Metodo indiretto è parlare del più e del meno durante il pasto (particolarmente a cena), raccontando come è andata la giornata, dando un giudizio sulle cose lette sul giornale, sulle cose viste sul lavoro, il tutto senza salire in cattedra, ma con la massima spontaneità.

Le parole dette senza preavviso sovente hanno un fortissimo impatto sul figlio perché rivelano senza filtro i nostri pensieri, le nostre opinioni, i valori che ci portiamo dentro.
Il noto pedagogista italoamericano Leo Buscaglia era solito dire che a costruirgli il suo codice di vita erano state le parole che il padre lasciava cadere a tavola durante la cena con una spontaneità tale che lo rendevano credibile.

Il padre gli diceva: «È fondamentale amare. Non tradire mai te stesso. Se vinci gli altri sei muscoloso, se vinci te stesso, sei forte. Il portafoglio non soddisfa tutto. Si può essere imbalsamati a 16 anni: basta arrendersi».
Una proposta non miracolosa, ma una proposta alla quale ci pare di dover riconoscere due meriti: non danneggia mai l'educazione del figlio e (ciò che più conta!) sovente funziona.

Autori: P.Pellegrino
Fonte: B.S. Ottobre 2016
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mercoledì 28 settembre 2016

Non alzate la voce, trovate un argomento migliore

NON ALZATE LA VOCE, 
TROVATE UN ARGOMENTO MIGLIORE

Alzando la voce non vi farete capire meglio. Le urla sono aggressive e umilianti e rappresentano una comunicazione violenta piuttosto comune in molte dinamiche familiari. Le urla non sono educative né edificanti per una relazione di coppia sana, al contrario, diventano troppo spesso il tipo di maltrattamento più comune.

Albert Mehrabian è uno psicologo esperto della comunicazione non verbale. Nella maggior parte dei suoi lavori su questo argomento sottolinea l’importanza del tono di voce quando vogliamo mantenere un dialogo che sia empatico e assertivo allo stesso tempo. In qualsiasi processo comunicativo, solo il 7% del significato totale viene dato dalle parole, mentre il resto dipende dal tono della voce e dal linguaggio non verbale.

Una voce carica di rabbia e disprezzo non potrà mai capire il potere impercettibile di quella voce chiara che sa farsi comprendere con rispetto e delicatezza. La comunicazione è un’arte che non tutti sanno usare.

Che ci crediate o meno, tutti commettiamo qualche errore quando comunichiamo. Le ironie, i doppi sensi, le urla e l’incapacità di fare un uso efficace della comunicazione emotiva sono, senza alcun dubbio, gli errori più comuni. Oggi vi invitiamo a riflettere al riguardo.

Mai alzare la voce con un bambino
Lo stile comunicativo con il quale si cresce un bambino ha un grande impatto sul suo sviluppo personale ed emotivo. È normale, per esempio, per una maestra ritrovarsi in aula con studenti timidi e con una bassa autostima per via dei genitori che usano abitualmente un tipo di comunicazione aggressiva e basata su ordini e minacce.

Questo non è il comportamento giusto da adottare. Nonostante ciò, un aspetto che dobbiamo prendere in considerazione è che, molte volte, è possibile perdere la pazienza e finire per alzare la voce con i più piccoli. Non c’è bisogno di essere “genitori autoritari” per commettere l’errore di urlare per farsi ubbidire dai più piccoli. Lo sappiamo tutti e cerchiamo sempre di evitare episodi simili.

Le conseguenze di urlare ai bambini
Gli esperti in terapia comportamentale infantile sottolineano la necessità di non urlare con i propri figli o alunni per i seguenti motivi:


  •          Ogni volta che state per comportarvi in un certo modo, fermatevi e riflettete sulle conseguenze che può avere sul bambino. Voi siete i loro modelli da imitare.
  •          All'inizio usare le urla spaventerà il bambino e lo spingerà ad ubbidire, ma poco a poco svilupperà una “tolleranza” al tono di voce troppo alto. Allora, dovrete urlare di più e, probabilmente, anche loro inizieranno a urlare con voi.
  •          In questo modo, l’urlo finisce per diventare un modello di comunicazione che, con il tempo, anche i vostri figli adotteranno.
  •          Un uso eccessivo delle urla implica ulteriori conseguenze: il bambino smette di collegare questo tono di voce alla rabbia, smette, quindi, di provare empatia per le persone e di capire quando qualcuno è arrabbiato o quando gli sta parlando in modo normale.
  •           Le urla sono una forma di maltrattamento ed è un concetto che dobbiamo capire molto chiaramente. Una comunicazione persistente basata sulle urla è causa, in molti casi, di bassa autostima e depressione negli adolescenti, proprio come ha dimostrato uno studio condotto dall’Università del Michigan, negli Stati Uniti.

Abbassate la voce, trovate un argomento migliore
Quando si tratta di una relazione, le urla possono essere dei veri e propri aghi che si conficcano dentro di voi, ferendo la vostra integrità e dissanguando la vostra autostima. È un comportamento distruttivo che non possiamo tollerare. Chi vi ama vi rispetta, chi vi ama non vi aggredisce e la comunicazione aggressiva è un maltrattamento vero e proprio.

È vero anche che, a volte, c’è chi è abituato ad alzare la voce, a pensare che, se parla più forte, riuscirà sempre a imporre la propria verità e le proprie ragioni. Per questo motivo, è necessario riflettere sulla necessità di abbassare il tono, trovare argomenti migliori e fare buon uso della comunicazione emotiva. Questi sarebbero i pilastri di base:

Descrivere i comportamenti e non le persone
Il semplice fatto di venire paragonati ad altre persone è, senza dubbio, una mancanza di abilità emotiva e comunicativa: sei stupida proprio come mia cugina o sei falso proprio come il mio collega di lavoro.

Non è la cosa giusta da fare, quindi non fatelo e non permettete agli altri di farlo con voi. È più costruttivo saper difendere un argomento e descrivere i comportamenti: “Non mi sta bene che tu non sia sincero con me, devi cercare di dirmi la verità”.

Usare verbi che vi permettano di stabilire un legame emotivo
Le emozioni sono contagiose e le parole sono un vero e proprio canalizzatore di emozioni positive, che tutti abbiamo a portata di mano. Perché non le usiamo come dovremmo?

Mi piace che…
Io penso, credo che…
Mi piace come…
Sento che…
Mi sembra che…

Un tono che doni calma
Con il tono giusto, sarete in grado di sedurre, calmare, offrire fiducia e creare la giusta vicinanza con il vostro interlocutore. Un urlo, invece, farà risvegliare in lui la rabbia, la mancanza di fiducia e la paura. Non è costruttivo né rispettoso e, per questo motivo, dovete imparare a gestire le vostre emozioni e a tenere sotto controllo alcuni aspetti.

Le parole calde, rilassate e dotate di un buon argomento e di rispetto sono legami che ci uniscono alle persone che amiamo.

La vera comunicazione non nasce parlando o urlando, la comunicazione inizia sempre con il saper ascoltare dal cuore.

Fonte: lamenteemeravigliosa.it
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mercoledì 21 settembre 2016

Insegniamo ai nostri figli ad avere compassione

INSEGNIAMO AI NOSTRI FIGLI AD AVERE COMPASSIONE

C'è una qualità umana da riconquistare: la compassione. Vivere con i figli questa straordinaria virtù è diventato più che mai necessario. 

Il modo più semplice di esprimere agli altri compassione (o empatia) è ascoltarli.
«Tanto di me non importa niente a nessuno». Così a 14 anni ha tentato il suicidio. Le persone che “ascoltano” stanno diventando una rarità. Sono molte quelle che interrompono chi parla dopo pochi secondi per inondarlo di consigli, che di solito riguardano tutt'altro. I cattivi ascoltatori non sono “con” la persona che vuole comunicare. Parlare, nella migliore delle ipotesi, significa condividere. Ascoltare veramente una persona significa dirgli: «Tu sei importante per me. Perciò ti do tutta la mia attenzione».

Comunicare
L'essere umano può sopravvivere soltanto in una comunità di persone e ciò non è possibile se di queste persone non si colgono come proprie le emozioni e le intenzioni. L'empatia è necessaria alla comunicazione, alla collaborazione e alla coesione sociale. Se la annulliamo ridiventiamo selvaggi, anzi perdiamo la capacità stessa di sopravvivere. Inoltre l'empatia è il mezzo di gran lunga più utile per migliorare qualsiasi rapporto. Avete mai assistito a un diverbio in cui nessuna delle due parti aveva la benché minima capacità e volontà di vedere le cose dal punto di vista dell'altro? È doloroso, ma succede, e possiamo constatarlo ogni giorno sulla scena dei rapporti internazionali.

Guardare gli altri con occhi “puliti”
Per chi è libero da pregiudizi e fanatismi, la compassione non è la pietà e neanche semplice tolleranza, ma capacità di cancellare differenze e di non essere indifferenti con apatia. Proprio questo spiega perché la chiamata a essere compassionevoli suscita una resistenza profonda. La compassione è un modo nuovo, non competitivo di stare insieme agli altri, e ci apre gli occhi a vicenda. Quando rinunciamo al nostro desiderio di essere importanti o diversi, quando ci lasciamo dietro le spalle il bisogno di avere nella vita una nicchia speciale, quando il nostro interesse principale è essere come gli altri e vivere questa uguaglianza nella solidarietà, allora siamo capaci di vederci l'un l'altro come un dono unico. Raccolti insieme nella comune vulnerabilità, scopriamo di avere tante cose da darci a vicenda.

Non essere competitivi
I nostri talenti specifici non dovrebbero essere oggetto di competizione, ma elemento di comunione. Positivi o negativi, i tanti paragoni impediscono al bambino di costruirsi un'identità sana; è già tentato di confrontarsi agli altri e definirsi in rapporto a fratelli e compagni, è assorbito abbastanza dallo spirito di competizione senza che i genitori contribuiscano. Così, piano piano, si finisce per vedere gli altri come semplici pedine sulla scacchiera della vita. Tutto questo che cosa provoca? Mancanza di compassione, sostituita con indifferenza o anche rabbia per chi non è all'altezza delle aspettative.

Fermarsi sulla strada dove qualcuno ha immediato bisogno di attenzione
I genitori possono incominciare con esercizi quotidiani di empatia. Un piccolo esempio. Se camminiamo per la strada con nostro figlio e questo inciampa e cade, possiamo reagire in due modi. Da una parte, possiamo percepire la sua sofferenza, non solo sentendo nel nostro corpo il dolore fisico e lo spavento che potrebbe essersi procurato con la caduta, ma anche immedesimandoci nella vergogna e nell'imbarazzo che può provare di fronte a noi. Dall'altra, possiamo commentare in maniera sprezzante: «Ma perché non guardi dove vai? Per forza che poi cadi». Nel primo caso, cerchiamo di identificarci con nostro figlio e partecipiamo della sua sofferenza. Nel secondo, vogliamo eliminare ogni tipo di empatia. Il contrario della gentilezza, infatti, sono il biasimo, il ripudio, l'esclusione dell'altro. È molto importante donare ai figli la capacità di immaginare la vulnerabilità dell'altra persona e, di riflesso, di accettare la propria, la disponibilità a riconoscere la sofferenza e il piacere dell'altro e ad astenersi dal desiderio di punirlo o di sfruttarlo. Un rischio che vale la pena di correre per smettere di vivere sulla difensiva e per esporci fiduciosi alle esperienze e alla ricchezza che possono arrivare dagli altri.

Costruire la misericordia in famiglia
Anthony Cymerys è un barbiere che da venticinque anni taglia i capelli ai barboni e agli anziani poveri della sua città, in Connecticut. Quando cominciò, andava in giro con la macchina a cercare persone che potessero aver bisogno di un taglio; adesso che ha più di ottant'anni ha deciso di farsi trovare ogni mercoledì con una sedia di legno nel Bushnell Park. C'è la fila; sanno che lui non si scandalizza davanti a nessuno. Taglia capelli, fa la barba e massaggia il viso e le spalle di chi si siede. Tutto quello che chiede in cambio è un grande abbraccio. Se anche in famiglia sapessimo riconoscere e comprendere i bisogni degli altri, renderci disponibili e in cambio chiedere solo grandi abbracci!

“FORESTIERI”
A causa della crescente mobilità di un grande numero di persone sul nostro pianeta, accade sempre più spesso che ci troviamo faccia a faccia con individui di altre culture. Sono persone cresciute in ambienti diversissimi dal nostro. Hanno una religione diversa dalla nostra. Anche il colore della pelle, magari, è diverso. E così le usanze, l'alimentazione, il modo di vestire, di affrontare la sessualità, di percepire il tempo, di concepire le buone maniere e il senso del dovere, l'atteggiamento verso il denaro e il lavoro, insomma tutto. La nostra prima reazione è spesso di sospetto. È stato dimostrato che il pregiudizio razziale ha radici profonde e che il sospetto non è razionale, ma basato su una reazione emotiva immediata sulla quale non possiamo esercitare alcun controllo. Quindi anche le persone che dicono di non avere pregiudizi, in realtà in qualche misura ne hanno. L'educazione all'empatia è forse una delle necessità più urgenti nei nostri programmi educativi a tutti i livelli.

IL FOLLETTO MALIGNO
Due uomini erano amici fin da bambini e fra loro c'era un rapporto forte e profondo. Erano cresciuti passando quasi tutto il loro tempo libero assieme. Quando si erano sposati, avevano costruito le loro case una davanti all'altra, separate solo da un sentiero, nessuno steccato. Così per molti anni le loro due famiglie andarono d'amore e d'accordo. Ma un giorno un folletto decise di mettere alla prova la loro straordinaria amicizia. Si mise un mantello speciale, diviso in due a metà, rosso a destra, blu a sinistra. Mentre i due stavano lavorando nei campi, il folletto, camminando sul sentiero, attirò su di sé la loro attenzione. Alla fine del lavoro, uno dei due amici commentò, dicendo all'altro:
«Quell'uomo aveva un mantello rosso che era proprio bello».
«Era blu», disse l'altro.
«No, era rosso».
«Non sono stupido! Era blu».
Così incominciarono a discutere alzando sempre di più la voce, fino a che finirono per litigare. «Questa è la fine della nostra lunga amicizia!», esclamarono entrambi.
A quel punto il folletto ritornò e incominciò a danzare girando lentamente su se stesso davanti ai due litiganti, i quali subito videro entrambi i colori.
«Ci hai fatto litigare, sei un nemico! Per tutta la nostra vita siamo stati amici. Hai incominciato una guerra fra noi!» urlarono.
«No, non sono stato io a causare il litigio. Avevate ragione entrambi, e avevate torto entrambi. Litigavate perché ognuno ha guardato solo dal suo punto di vista».

Autori: Ferrero- Peiretti
Fonte: B.S. Maggio 2016
Paidos Onlus
dalla parte dei bambini, SEMPRE

mercoledì 14 settembre 2016

Trattate i vostri figli come vorreste essere trattati voi

TRATTATE I VOSTRI FIGLI COME VORRESTE ESSERE TRATTATI VOI E NON SBAGLIERETE

Trattate i vostri figli come vorreste essere trattati voi. Spegnete le loro paure, date un nome alle emozioni che non sanno esprimere, offrite loro tempo, accendete i loro sogni e fateli sentire come quello che sono: le persone più preziose del vostro mondo.

È curioso che oggigiorno molti genitori abbiano paura di crescere i loro figli. Leggono manuali di educazione, si informano riguardo alle ultime teorie, cercano su internet le risposte ad ogni problema oppure chiedono agli amici, che siano genitori o meno, considerandoli veri e propri guru nell’ambito della crescita dei bambini. Tali genitori si dimenticano di ascoltare l’elemento più prezioso in questo senso: il loro istinto naturale.

L’istinto di una madre o la capacità naturale di un padre di intuire i bisogni dei propri figli sono senza dubbio le migliori strategie educative. I bambini giungono a questo mondo con una bontà innata, quindi meritano di essere trattati con rispetto, al fine di salvaguardare la nobiltà del loro cuore. Gli avvenimenti che la vita offrirà giorno per giorno vanno accolti con naturalezza e senza timore.
Vi invitiamo a riflettere al riguardo.

I bambini vanno trattati con affetto e senza paura
Ci sono genitori che hanno paura di fallire nel loro compito. Considerano una tragedia non regalare ai figli la miglior festa di compleanno, non poterli assegnare alla migliore scuola in città oppure non poter comprare loro gli stessi vestiti di marca che indossano i loro compagni. Aspirano ad offrire loro ciò che non hanno mai avuto.

Ovviamente ognuno è libero di scegliere come educare i propri figli, ma spesso ci dimentichiamo di come sono fatti i bambini e di cosa accade dentro di loro. Ci fissiamo su tutte le cose che dovremmo dar loro e non ci rendiamo conto che hanno prima di tutto bisogno di NOI.

Un bambino non è un adulto in miniatura, è una persona che ha bisogno di comprendere il mondo attraverso di voi e con il vostro aiuto.
Un bambino agisce sempre in base alle sue necessità e mai per malizia o per manipolare gli adulti. Dovete essere intuitivi di fronte alle sue richieste.

Un bambino dev’essere innanzitutto trattato con affetto. I vostri figli non hanno bisogno di vestiti di marca o di giochi elettronici da usare in solitudine. Hanno bisogno del vostro tempo, del vostro esempio, dei vostri abbracci della buonanotte, della vostra mano per attraversare la strada.

L’educazione auto-regolata: comprendere e accompagnare
L’educazione auto-regolata si nutre direttamente delle teorie sull’attaccamento formulate dallo psichiatra Wilhelm Reich che sono tornate in voga, in quanto esaltano una serie di concetti basilari grazie ai quali possiamo sintonizzarci meglio con l’infanzia, i suoi ritmi e le sue necessità tipiche.

Una madre è più utile che mai quando ha fiducia nel suo istinto, quando legge negli occhi del figlio ciò di cui questi ha davvero bisogno.
L’aspetto interessante di questa prospettiva è che vede l’auto-regolazione come un sinonimo della vita, della necessità di entrare prima in contatto con la nostra complessità personale per capire il bambino, le sue necessità e i suoi conflitti, spesso creati da una società che non lo comprende.

I principi dell’educazione auto-regolata
L’educazione auto-regolata ci dice che un bambino trattato in modo rispettoso durante l’infanzia e che ha visto i genitori agire con garbo nei confronti delle altre persone sarà a sua volta un adulto rispettoso.
Ma come raggiungere questo risultato?  Come possiamo regalare adulti al mondo secondo l’educazione auto-regolata?
Il bambino deve sentirsi compreso e accompagnato in ogni momento. Se dovesse percepire frustrazione, smetterebbe di sentirsi accettato ed integrato.

Bisogna educare attraverso un attaccamento sano basato sull’amore e sulla vicinanza. In questo modo, poco a poco, il bambino si sentirà sicuro di avanzare verso l’indipendenza.
La voce di un bambino va sempre ascoltata, perché i piccoli vanno considerati sia quando ridono sia quando piangono, sia quando chiedono che quando propongono.
L’educazione auto-regolata ci parla anche dei ritmi: è preferibile non dare inizio all’apprendimento intellettuale fino ai 7 anni, per favorire i momenti di scoperta attraverso il gioco.

L’interazione tra il bambino e l’ambiente attraverso i cinque sensi e le relazioni felici con i suoi pari sono un altro modo interessante di favorire il suo sviluppo psico-sociale. Tuttavia, qualunque sia il metodo che decidiate di adottare per educare i vostri figli, non dovete mai scordarvi che la cosa migliore è trattarli con una formula magica sicuramente infallibile: l’amore.

Un bambino non vuol dar retta a grida e rimproveri. Vostro figlio merita di essere trattato con l’arte dell’ascolto, della pazienza e della grandezza dell’affetto. Perché i bambini non vanno domati, ma amati.

Fonte: lamenteemeravigliosa.it
Paidòs Onlus
dalla parte dei bambini, SEMPRE